LUCRECIA DALT  "Anticlines"
   (2018 )

Uno di centomila possibili percorsi obliqui, laterali, diagonali o comunque si voglia tentare di circoscrivere l’indefinibile, “Anticlines” (appena uscito per RVNG Intl. Records) segna il ritorno sulle scene dell’artista colombiana Lucrecia Dalt a due anni e mezzo di distanza dalle quattro lunghe tracce di “Ou”, a cinque dalle contorsioni morbide di “Sygyzy”, forse il suo lavoro più accessibile, ad anni luce dalle trame eteree di “Commotus” e dagli esordi mutevoli di “Acerca” e “Being Home”, tentativi di ricerca di un suono che solo attraverso successive ridefinizioni è giunto all’attuale forma. Sublimazione di una parabola inafferrabile, rarefazione trascendente, culmine di un tragitto di crescita, maturazione, raffinazione di un estro incatalogabile, “Anticlines” è la metafisica celata dentro l’arte colta e ipnotica di Lucrecia, compendio di febbrili contorsioni che si agitano sotto la superficie di un album alieno ed inusuale, intricata musica-per-idee curiosamente suadente. Figlio della sperimentazione cervellotica - ma in fondo spendibile - di Laurie Anderson, l’ultimo capitolo dell’arzigogolata saga della Dalt vaga composto fra droni, loop, minimalismo, stasi, musique concrete, in un’alternanza fra episodi cantati e brani strumentali che dona al complesso una straniante allure. Il tutto si svolge lungo un tortuoso percorso di trentasei minuti e quattordici tracce, ciascuna delle quali inscindibile dal contesto in cui è immersa; l’uso della voce – robotica, narrativa, strumento che si insinua fra suoni distillati – aggiunge un alone di misticismo, un’alterità distopica che esige ripetuti ascolti per superare il confine tra sospresa e comprensione. In una bolla opaca di suggestioni avant si innestano su un tessuto di elettronica scarnificata liriche caratterizzate da un algido esistenzialismo declinato in forma di riflessione scientifica (agghiacciante il testo dell’opener “Edge”): il crooning di Lucrecia è uno spoken word capace di trafiggere litanie atonali con la freddezza di una lama affilata, concedendo addirittura a “Tar” – vicina senza volerlo ad un’idea convenzionale di canzone - di muoversi sinuosa su una fasulla bossanova che tale non è, ma agita, stupisce, spiazza. E mentre “Indifferent Universe” accenna perfino una remota eco di reggae stravolto e deformato, sprazzi di neoclassicismo contemporaneo, Eno, Notwist, Schoenberg e Starfuckers si fondono in un gioco perverso che di continuo accenna senza mai concludere. Dagli echi metallici di “Glass Brain” agli effetti che distorcono la voce nell’accoppiata “Liminalidad” e “Eclipsed subject”, quella di Lucrecia è una narrazione per immagini sovrapposte, glaciale, chirurgica: spaventa nel suo incedere metronomico privo di immediatezza, confonde nella sua aperta rinuncia alla frivola piacevolezza dell’ascolto. Non sono amabili le ripetizioni schematiche di “Analogue Mountains” né la nervosa colata di dissonanze che scuote “Errors Of Skin”, tantomeno una “Axis Excess” che pare la colonna sonora di un incubo o il bolero spolpato all’osso di “Atmospheres Touch”: eppure ha fascino questa waste land ingrigita, una inspiegabile sorta di attrazione/repulsione che rende spettrale la chiusa di “Antiform”, due minuti haunting come l’ombra di un assassino che in agguato attende il momento propizio. “Anticlines” è un antro del quale intuisci la pericolosità: ma sa attrarre, con la malizia un po’ lasciva della musa inquietante che Lucrecia è, anche nella sua insistita ricerca di una via alla conoscenza impervia e angusta. (Manuel Maverna)