WINTER DIES IN JUNE  "Penelope, Sebastian"
   (2018 )

Partiamo dalla fine: questo disco è perfetto. Rewind: occorre stare al gioco, visto che è un viaggio à rebours anche “Penelope, Sebastian”, secondo lavoro del quintetto emiliano Winter Dies In June, già segnalatosi per l’ottimo esordio di “The Soft Century” (2014). Sorta di concept rovesciato sulla fine di un amore, l’album inizia da un addio e termina in un incontro, quasi una buona speranza, augurio o esorcismo, auspicio di lieto fine. Un po’ come andarsene nascendo, in cauda gaudium. Trattasi – incredibile, vista la qualità del materiale – di un’autoproduzione, prodigiosa per ispirazione ed equilibrio oltre che per la maturità che questo pugno di composizioni suggerisce: preferisco leggerla come una scelta figlia della libertà autoriale piuttosto che come segnale di imperdonabile miopia altrui. Rispetto al debutto, “Penelope, Sebastian” guadagna in personalità e quadratura: anche in scrittura, azzarderei. E’ più solido, centrato, omogeneo; vaga in meno direzioni e conserva intatto un fanciullesco stupore, uno splendore introverso quasi timido, dimesso, schivo. Le canzoni acquisiscono una profondità che le ammanta di un fascino romantico, steso come un velo trasparente su queste tracce ripulite dalle ombre lunghe del recente passato. Otto brani che conservano intatta una mesta purezza intrisa di una melanconia debordante, condensata in altrettante ballate infarcite di accordi minori e di una palpabile tristezza in cui crogiolarsi. L’opener “Aeroplanes” ha un abbrivio da Dire Straits, ma impiega trenta secondi per andarsi a nascondere in qualche altro cunicolo, più vicino allo scintillante spleen degli Smiths; “Sands” si snoda sinuosa su un’aria da National, innalzandosi su un chorus di sopraffina bellezza, morbido e saturo, mentre “Sebastian” arranca su un rallentamento folkish, soffice e solare nella sua carezzevole pigrizia bucolica. Mi ricordano mille e una variazione sul tema, da Belle And Sebastian ai McEnroe, dai Church ai The Pains Of Being Pure At Heart, dagli Airborne Toxic Event (“Penelope”) a qualche eco da Wilco (“Nowhere”) fino ai meravigliosi conterranei Jarred, The Caveman: sanno ricamare, impastare, ricucire, mantenendosi costantemente nel solco di atmosfere languide e lineari quanto basta a concederti la rilassatezza di un ascolto rasserenato, nell’intimità che prediligi. I brani si somigliano come perle in un collier, differiscono per inezie, dettagli, minuzie, ed è ciò che paradossalmente li rende statuari. “Boy” si arrampica in un up-tempo da Cure; il basso che incornicia e puntella i cinque minuti di “Space” disegna un ritornello così smaccatamente british da rievocare i Pulp dei tempi d’oro; “Penelope” ondeggia distratta per sei minuti di impalpabile beatitudine. Il canto conforta, racconta, culla: è misurato, pacato, gentile. In chiusura – ma sarebbe l’apertura – rimane la diafana melodia di “Different”, ballad desolata per chitarra acustica arpeggiata, stralunata e spoglia, appena scossa da un’accelerazione garbata che dopo un paio di minuti la prende per mano e la porta con sé tra un piano acustico sfuggente ed un sordo incupirsi in sottofondo: dovrebbe essere un commiato ed invece è solo il punto di partenza. Questo è “Penelope, Sebastian”: un labirinto di specchi, in cui non sai dove posare lo sguardo o in quale direzione muovere il prossimo passo, un amabile inno del perdersi - sì, ma senza pericoli, asperità, timori. Con gioia. (Manuel Maverna)