ALBERTO CANTONE  "Breve danzò il Novecento"
   (2018 )

Il XX° secolo è stato indubbiamente un periodo di accelerazioni impensabili fino ad allora, e sul suo fascino prima o poi ogni persona nel mondo si fa delle domande, si chiede cosa sia andato perso, e cosa sia rimasto di attuale. Prima o poi qualcuno avrebbe tentato di omaggiare in musica il secolo delle guerre mondiali e del boom economico, e così è stato: ci ha pensato Alberto Cantone, cantautore dall'attività trentennale, che pubblica l'album "Breve danzò il Novecento". Tredici canzoni, di cui dodici prendono spunto dai cosiddetti protagonisti "minori" del secolo. L'intuizione fondamentale è aver mescolato tempo e spazio: qui si parla del Novecento non come degli anni ma come un luogo, una grande città. Di cui esiste un centro, costituito dalle parole chiave che tutti riconoscono: cinema, nazifascismo, bomba atomica, hippie, Tienanmen, muro di Berlino... Ma esistono diverse "periferie" meno visitate, che sono le quali su cui si sofferma Cantone cantando "qualche storia di traverso, di contorno", con arrangiamenti prevalentemente costituiti da chitarra acustica, fisarmonica e violino, il classico sound da cantastorie alla francese, e con una voce posata che a tratti sembra voler ricordare Fabrizio De André. "Il pittore milionario" apre questa vetrina, su un artista rivalutato post mortem di cui non si fa mai il nome. E' un destino comune a molti artisti visionari, e qui ironicamente si canta che ora è ricchissimo e "non se la passa male". "Passa" invece si tuffa subito nella Grande Guerra, riferendosi a quella tregua natalizia del 1914 in cui i soldati nemici, non dovendo più spararsi a vicenda, bivaccarono assieme in allegria. La canzone sposta con la fantasia l'episodio sul fronte carsico, e funziona come una triste filastrocca; infatti, l'anafora del testo "Passa" si mescola con le parole di "Tutti giù per terra". Il finale è lasciato al pianista Borsoi, che ripete il tema con sentimento. La titletrack "Breve danzò il Novecento" si rivolge al secolo come ad un uomo, ed è una carrellata di ricordi (l'uccellino della Rai, "la santa battaglia del lavoro") ma anche una riflessione sull'esito delle istanze: "Cominciò con il suffragio universale, e finì in un coro muto". Fine il riferimento a Django Reinhardt, il chitarrista jazz più influente del secolo. Il focus torna alla guerra con "La moglie del comandante", ma non sul campo di battaglia, bensì nelle sale dove gli ufficiali ballavano, circondati dall'orrore. Una condizione privilegiata, dove "i bambini stanno tutti bene (...) si lavano col sapone". "Capitano" invece sembra una lettera indirizzata ad un capitano già anziano durante la guerra, scritta dal figlio, che cerca il distacco, ma "Forse ti somiglio, e non ci posso più fare niente", nonostante disprezzi le sue "medaglie di merda e cioccolata". Finalmente la guerra finisce. "Un sosia in bianco e nero" narra in prima persona di un musicista scampato da un incidente stradale dopo una notte brava in macchina con una donna: "Le sue tette mulinavano al vento, mi son svegliato all'ospedale". Si riferisce a Paul Mc Cartney e alla leggenda secondo cui sarebbe morto, e quello che conosciamo dal '66 in poi sia un sosia; Cantone immagina che i quattro scarafaggi più famosi del mondo abbiano deciso di far girare la storia davanti al letto d'ospedale di Cartney. Gli anni '60 furono rivoluzionari non solo per la musica, ma anche per le prime battaglie contro il razzismo. Immagine simbolo quella dei corridori Tommy Smith e John Carlos sul podio, che alzarono i pugni chiusi al cielo. La canzone su questa storia si chiama "Peter Norman", e si focalizza sul bianco australiano arrivato terzo, che nella foto risultava "un inutile particolare". Alberto canta che Norman per istinto si unì alla lotta come fosse la sua, e questo gli costò la carriera, ma fu una decisione irrinunciabile per quel tempo, in cui si respirava un "vento di libertà". "Il regista ed il mediano" si sposta negli anni Settanta, duplice omaggio a Pasolini e al calciatore della Lazio Luciano Re Cecconi, che ha in comune col regista la morte violenta, condanna secondo Cantone inflitta da quegli anni "bugiardi e un po' assassini". Gioca sul campo semantico del calcio ("Poi arriverà la moviola a dirci cos'era stato"). "La danza" è un tango dove si mette il ballo al di sopra dell'amore, in fatto di dedizione, passione e senso di totalità. "La Pantera" è una rapida narrativa di quel movimento universitario italiano sorto nell'89 e fermato subito nel '90 dalla macchina del fango dei giornali. Un giusto ricordo per chi non voleva che il Sapere non fosse svenduto a privati, che con le loro fondazioni avrebbero per forza di cose influenzato la direzione della cultura. Il finale è amaro: "La notte torni calma e buia, tutti a lavorare". "#credononcredo" è una riflessione sul Dio in cui credere e non credere. Oggi questi pensieri suonano un po' stantii, è ormai condiviso da tutti che il "dio delle crociate, il dio delle nazioni" non è il dio giusto a cui credere, mentre, come dicono le ultime strofe: "Io credo in un Dio che si è fatto uomo, credo nell'ascolto, credo nel perdono". Però questo tipo di riflessioni, che portarono a considerare Dio come "la parte buona" di noi, e al concetto "Dio siamo noi", si sono affermate proprio nella seconda metà del Novecento, ne incarnano la parte spirituale ormai non più disposta a credere alle superstizioni, in favore di un Dio che si vede nel volto degli umani e nella concretezza delle buone azioni. In "Con il televoto" l'autore immagina scherzosamente (ma non troppo) che decideremo qualunque cosa col televoto, non solo il risultato di Sanremo. Del resto "è più facile che ragionare". Chiude il ricco album una canzone su un'attività cardine dei nostri tempi online e social: "Car sharing". Oltre alla condivisione della macchina, il cantautore pensa alle chiacchierate di vari lavoratori, (imbianchini, impiegati, puttane...) e alla condivisione della pazienza che devono avere per le prossime otto ore, oltre che dei sogni. Così si conclude l'album sul Novecento, sottolineando che, seppur annacquate dall'illusione egualitaria del web, le diverse categorie dei lavoratori esistono tutt'ora. E, forse, ripassare il secolo più utopista della storia dell'umanità, ci può aiutare a salvare il salvabile per i nostri giorni. (Gilberto Ongaro)