GIORGIO GABER  "Io non mi sento italiano"
   (2003 )

Quando uno spirito libero ci lascia si ha la spiacevole sensazione di aver perso un appoggio, un punto di riferimento, insomma una parte di noi: è successo con De André e puntualmente è risuccesso con Gaber, anche per quelli come il sottoscritto, che lo consideravano una specie di Dario Fo della canzone, uno più da andare a vedere al teatro che da ascoltare. Per essere poi smentiti da dischi come questo, in cui anche la musica si presenta più che decorosa, a tratti veramente piacevole, pur rimanendo relegata ad una funzione di sfondo per le parole di Gaber, che sono il succo. L’antico socio Jannacci diceva, con versi sconnessi come lui: “allora sarà ancora più bello… quando tace il water… quando parla Gaber”. Sembra un delirio, ma è un’intuizione: quando parla Gaber l’effetto è opposto a quello della pubblicità, in cui anche i cessi parlano, soddisfatti se trattati con l’anticalcare giusto. Gaber ci parla, e sempre senza peli sulla lingua, “senza se e senza ma”, scandendo le sillabe e declamando sornione e sarcastico quello che l’ipocrisia collettiva non consente mai di dire, scovando spietatamente “i mostri che abbiamo dentro”. Il titolo di questo disco-testamento non inganni: la satira contro il forzato patriottismo da tre soldi con il quale stanno tentando di lavarci il cervello è confinata solo alla buffa marcetta che dà il titolo all’album (e d’altronde il glorioso inno di Mameli che cos’è, se non una buffa marcetta?). Il filo conduttore invece riguarda un ambito molto più vasto della stretta Italietta: è un’appassionata dichiarazione di non appartenenza al Pensiero Unico, quello in cui “il tutto è falso, il falso è tutto”, come ripete ossessivamente il brano che apre l’album. Chiunque pensi che il mondo, seguendo unicamente le leggi del mercato e dell’immagine, andrà verso l’autodistruzione, preceduta da un progressivo imbarbarimento, può sottoscrivere queste parole, ma il modo con cui Gaber sa proporle è unico. Anzi, sono più modi: senza alcun spiraglio di speranza (“Il tutto è falso”, “I mostri che abbiamo dentro”) oppure con moderata fiducia in una una possibile salvezza, come in “Non insegnate ai bambini”, che invita a non contaminare almeno le future generazioni con la “morale” dominante e “Se ci fosse un uomo”, che non a caso chiude il disco con l’incerta fede in un nuovo tipo di umanità che dovrà popolare uno spazio che (per ora) è irrimediabilmente vuoto. C’è spazio anche per l’analisi dei sentimenti umani, che nonostante tutto ancora esistono: “Il dilemma” è la storia di due innamorati che si tolgono la vita appena si rendono conto che il loro amore non ha più senso, e qui Gaber, pur con il suo tono distaccato da osservatore esterno, riesce suo malgrado a commuoverci; “L’illogica allegria”, ovvero quei momenti, sempre più necessari, in cui ci si ritrova con noi stessi, al di fuori dell’inutile schiamazzo che dovrebbe darci l’allegria più logica; “La parola io”, monito contro il narcisismo, che ci tenta fin da piccoli con il dolce suono di questa parola, ma rischia poi di farci andare alla deriva verso una delirante megalomania, ben rappresentata dal finale. Un’altra iniezione di sana ironia è “Il corrotto”, ritratto di persona divisa in modo schizofrenico tra la morale comune e le pulsioni più naturali, dove spicca una rima un po’ irriverente ma deliziosa (“Stranamente su questa teoria son d’accordo col Papa… però quella lì mi arrapa). Insomma, se pensare non vi spaventa, se l’Italiano Medio della televisione vi fa un po’ paura (perché sembra davvero un deficiente) questo disco fa per voi. (Luca "Grasshopper" Lapini)