VIBORAS  "Eleven"
   (2018 )

Avessi avuto vent’anni o giù di lì, questo disco è esattamente del tipo che avrei propugnato di fronte agli amici, decantandone l’ira funesta e la fragorosa irruenza, al contempo beandomi davanti a loro dei miei ascolti off. Ma di anni ne ho oramai più del doppio, e tutto ciò che posso fare con la mutata sensibilità ed i miei gusti di oggi – rust never sleeps, beninteso – è parlare di “Eleven”, terzo album dei milanesi Viboras in tredici anni a singhiozzo, col disincanto di chi sempre apprezzerà la prossima voce fuori dal coro. Lavoro scritto, suonato, interpretato ed (auto)prodotto divinamente, “Eleven” è un assalto anglofono di 38 minuti fatto di un bel punkettaccio dall’anima ruvida, dritto, rumoroso, arrembante, condito da una colorita sfilza di “fuck” come si conviene al mestiere; un disco che gira a meraviglia per ciò che è, ossia una bordata di undici tracce per chitarre&furia meravigliosamente spinte al limite dal crooning dispettoso e veemente di Irene Viboras, incattivita e frontale come una dea dei sotterranei. Il copione non riserva sorprese, ma non è quello che gli si domanda: la vestale sbraita arrochita tra il pulsare metronomico del basso, i cori Oi! ed una serie infinita di ritornelli in minore (pregevole quello di “Leave This Place”) senza sbagliare un colpo, menando sberle alla cieca in una tempesta elettrica che travolge tutto. Nessun cedimento, nessun ripensamento, dalla mitragliata di “Pray” che apre l’album fino alla ballata quasi ingentilita di “Raise” in chiusura, passando per la più lineare “Drives Me Insane” o per l’accelerazione di “Jaime” (bella la frase di chitarra sottotraccia): niente di nuovo, ma va benissimo così. Se poi il gioco non mi stupisce è perché questo mi aspetto dai Viboras, ma è un problema esclusivamente mio, e “Eleven” – in Italia o fuori porta - resta un gran disco di punk-rock, ad un centimetro dalla perfezione stilistica. Punto e basta. (Manuel Maverna)