ANGELO BRANDUARDI "Gulliver, la luna e altri disegni"
(1980 )
Sotto l’enorme cesto d’insalata dei capelli di Angelo Branduardi si nasconde un musicista con i fiocchi, ottimo violinista e chitarrista, grande conoscitore di strumenti ormai in disuso, ricercatore e compositore di musica etnica, con grande anticipo sulle mode degli anni ‘90. Ma più che la capigliatura, a tenere in ombra questo suo lato è l’ingiusta fama di autore di filastrocche infantili che a suo tempo si è creato, un po’ anche con le sue mani. Il grande successo di brani come “Alla fiera dell’Est”, “La pulce d’acqua” e “Cogli la prima mela” ha fatto dimenticare le sue composizioni più interessanti, spesso contenute negli stessi album delle arcinote filastrocche. E’ il Branduardi più autentico che prevale in un disco uscito nel 1975 come “La luna”, quasi ignorato e poi ristampato nel 1980 con la sola aggiunta di “Gulliver” e con il definitivo titolo “Gulliver, la luna e altri disegni”. Senza dubbio il capolavoro assoluto del menestrello lombardo, e il fatto che non contenga nemmeno un “hit” qui si rivela un vantaggio. L’inventiva è già al massimo, la strumentazione è già da maestro, c’è una maturità complessiva che lo pone su un altro livello rispetto all’incerto esordio del 1974. Spicca su tutto una ballata da pelle d’oca, che da sola giustifica l’acquisto: si chiama “Confessioni di un malandrino” e avvolge in un prezioso intreccio di arpeggi di due chitarre acustiche (Branduardi stesso e l’ottimo Maurizio Fabrizio) i versi di una bellissima poesia-confessione di Sergej Esenin. “Sul tappeto magnifico dei versi voglio dirvi qualcosa che vi tocchi…” dice tra le altre cose il testo, e mai come in questo caso ci riesce. Perché il principale limite del nostro menestrello è proprio quello dei testi, e se in questo caso viene elegantemente superato, di regola lo porta ad associare a musiche di eccellente fattura storielle e favolette piuttosto trite. Molto meno comunque in questo disco, che non a caso è il migliore. Una musica soave disegna il suggestivo quadro notturno initolato “La luna”. Morbidi colpi di grancassa, basso ovattato, nebbie di flauti, limpidi e rarefatti arpeggi di chitarra, lo stesso sussurro della voce… tutto è blu scuro, fresco, una notte di campagna con nero sfondo di boschi. “Rifluisce il fiume” è capace di smuovere le anime più refrattarie. Alle pressanti domande delle strofe (“Cosa dice il vecchio alla morte, che in attesa sta ?”, per dirne una) risponde ossessivo un ritornello basato su un motivo andino (“E niente mai perduto va… al centro tutto va”), con immancabile flauto. Risposta un po’ filosofica, ma a suo modo rassicurante: in fondo tutto fa parte del ciclo della vita. “Gulliver” è un pittoresco mix di percussioni arcaiche, chitarre pizzicate e acuti fischi di flauto, e ci porta più nel mondo degli hobbit e degli gnomi di Tolkien che in quello di Swift, autore dei “Viaggi di Gulliver”. Grande protagonista è la natura, una natura arcaica e idealizzata, come in “Tanti anni fa”, dove il lago e la donna che vi si bagna riportano il tempo indietro, a vecchie storie di castelli, in “Notturno”, dove si esplora il mistero profondo del sonno degli animali, e in “Primavera”, dove invece si celebra con ritmi insolitamente mossi il risveglio della vita, simboleggata da una donna. Che è anche simbolo di terra portatrice di frutti in “Donna mia”, con un bel tema ciclico di pianoforte che ha il solo difetto di ricordare un po’ troppo il primo preludio del “Clavicembalo ben temperato” di Bach. Altra farina non del sacco di Branduardi è la tristissima “Gli alberi sono alti”, basata su un tema tradizionale celtico, qui orchestrato con rara abilità, con le solite due chitarre acustiche in grande evidenza. “La danza”, breve come un’apparizione, chiude con le vibrazioni indiane di un sitar un album che mantiene le promesse del titolo: i disegni ci sono davvero e sono dieci, uno più colorato dell’altro. (Luca "Grasshopper" Lapini)