LARGE UNIT  "Fluku"
   (2017 )

Il free jazz è una disciplina senza disciplina, la resa sonora dell'anarchia. Potrebbe diventare anche parodia di sé, e non si coglierebbe la differenza. L'improvvisazione simultanea e polifonica di un quartetto o di un sestetto è già una follia affrontata nei decenni passati, ma addirittura farlo fare a undici musicisti, creando di fatto una big band con tutti i crismi, supera il concetto di avanguardia, e sembra più una sfida verso i propri limiti, e quelli di sopportazione degli ascoltatori. Era forse questo il sogno di Paul Nilssen-Love, dando vita al suo ambizioso progetto "Large Unit"? Raddoppiare Coleman? "Fluku", appena uscito per PNL records, è un album costituito da quattro tracce. La prima dura quasi 26 minuti, ed è letteralmente una litigata tra ottoni. Introdotta dalla sola batteria di Paul, bisognerà attendere l'ottavo minuto prima di ascoltare uno straccio di tema. Al tredicesimo minuto il sassofonista sembra intenzionato a distruggere il suo strumento, o a sputare i polmoni, da quanta forza mette nel soffiare. Poco dopo, gli undici si ritrovano a ribattere una pulsazione isterica di due note. Sfogati gli umori, i fiati lasciano la batteria sola per un po' a cercare un po' d'ordine nel caos che comunque essa stessa contribuisce a proseguire con il ride e con rullate inafferrabili sui tom. Dopodiché ritornano eseguendo note lunghe e tese, i volumi si abbassano. A fianco dei fiati e della batteria ci sono anche chitarra elettrica e rumori elettronici, che aiutano ad aumentare la saturazione definitiva del suono. Ora invece un basso gravissimo alternato ai silenzi e agli "allarmi" dei fiati, creano una suspense dissonante intrigante. La tensione continua finché emerge la chitarra elettrica che deflagra note impazzite, fino a terminare nel vuoto. "Springsummer" propone un tema, tornando a uno schema in un certo senso tradizionale, ma le improvvisazioni simultanee continuano. "Playgo" inizia vivacemente, poi la chitarra, isolata, inizia a sfregare le corde, e successivamente si raggiunge una situazione di improvvisazione coordinata, soprattutto dal punto di vista ritmico. Il basso tuba emerge saltellando, marcando sempre più le note gravi. Il sassofono fugge da questa zona imponendo tutt'altro giro a tutt'altra velocità, e pian piano gli altri seguono la sua ispirazione, ripartendo leggermente più lenti, ma con più tiro. Il sassofono continua a fare i capricci e decide di tornare a un modulo ritmico più rapido, e gli altri a ruota tornano a correre. Dirigerà il resto del brano così, con cambi non preparati, ai quali ogni componente della big band deciderà se seguirlo in maniera eufonica o cacofonica. L'ultimo dispetto si intitola "Happy slappy", è agitatissimo e affonda nell'elettronica dal gusto lo-fi, raggiunta poi dai fiati in maniera discontinua o, se vogliamo usare una metafora psicanalitica, dissociata. Chiude il brano un tema esatonale, suonato da tutti gli strumenti ben affiatati come nulla fosse. Alla fine dell'ascolto se ne esce con un po' di mal di testa, e ci si chiede, come si dice in inglese, se questa sperimentazione, se pur egregiamente sostenuta, non stia andando a little bit too far. (Gilberto Ongaro)