GIACOMO TONI "Nafta"
(2017 )
Voce isolata e singolare fra le meno allineate di un cantautorato deviato, intenso e focoso (mi sovvengono tra gli altri Cesare Basile e Giovanni Succi), Giacomo Toni è figura a suo modo statuaria di un modo inconsueto di interpretare il ruolo. Sia con la Novecento Band che in proprio, l’artista romagnolo si divincola da sempre tra serio e faceto, ritraendo con impietoso cinismo e bislacca sfrontatezza una variegata umanità, debole, imperfetta, viziata da innumerevoli difetti di fabbrica.
Secondo album da solista, “Nafta”, pubblicato per Brutture Moderne, è un bestiario tragicomico il cui lato grottesco prevale su quello ludico, carrellata di personaggi deformi descritti con vivido humour sardonico e pungente disincanto; disco chiassoso e fuori scala, musicalmente dispensa tra blues slabbrato e boogie d’antan briciole di nonsense à la Jannacci (“Cugino Motorio Pasticca”, “Ho Perso La Testa”), mantenendosi costantemente sovraesposto, crudo e diretto.
L’apertura de “Lo Strano” è così un sozzo bluesaccio waitsiano sbracato e vintage, sporco ed incalzante come la successiva “A Nessuno”, ballata squillante e satura, caotica e amara; non sempre all’intuizione fa seguito altrettanta profondità nel dipingere questi sanguigni affreschi di provincia (“Codone Lo Sbirro”, il divertissement di “Chinatown”) e, ad eccezione de “Il Diavolo Marrone”, latita forse il lampo di genio capace di trarre dal cilindro un nuovo bevitore longevo, ma sospetto sia espediente voluto per non sovraccaricare ulteriormente una forma d’arte più complessa di quanto il suo sembiante suggerisca. Arte – la sua – insolita e bizzarra, in equilibrio intelligente e mai precario tra il rischio di cedere ad eccessi macchiettistici e la difficoltà di esaltare lo scavo psicologico di un minuscolo sottobosco tanto bastonato quanto dignitoso.
Frenetico, folle, smisurato, scomposto, chiude con “Inchiodato A Un Bar”, aria dimessa per pianoforte e voce triste come una resa, o forse soltanto come la dolente confessione di una vita fra le tante sedute al bancone. (Manuel Maverna)