THE FLYING EYES  "Burning of the season"
   (2017 )

In apparenza insabbiato sotto una spessa coltre di fuzz, a tratti impaludato in una pozza di elettricità squadrata e stordente, “Burning Of The Season” è il quarto album in studio di The Flying Eyes, quartetto di Baltimora strettamente imparentato con le divagazioni acide dei Black Angels. Album che assolve pienamente ai suoi doveri, “Burning Of The Season” ripartisce equamente le otto tracce fra una prima metà declinata nelle più prevedibili fogge della materia psych-stoner-fuzz (la bordata di “Sing Praise” in apertura, Kyuss venati di ruvidi toni blues) ed una seconda parte inaspettatamente virata su un registro completamente differente, nella forma come nella creatività. Spesso memore di accenti vocali che richiamano perfino Eddie Vedder o Layne Staley (la lunga “Circle Of Stone”, con parte centrale quasi doorsiana e dilatata chiusa strumentale), Will Kelly conduce stentoreo brani rumorosi e saturi, forse non esaltanti, ma sontuosamente prodotti secondo i crismi di genere. Monolitici ed uniformi, i primi quattro episodi lambiscono una trance allucinata, benché priva dell’alone malevolo che oscura le litanie sulfuree di Alex Maas & soci, assumendo tuttavia toni lugubri ed opprimenti nella minacciosa incombenza di “Drain” come nella nervosa accelerazione finale che scuote “Come Round”. Tra chitarre in overdrive e feedback lacerante, avvolta nelle brume di Blue Cheer, Red Fang, Karma To Burn e Fu Manchu, quando sembra morta ogni speranza di un guizzo, una scossa, un’idea, la band rigetta all’improvviso quell’aria perfettina ed impeccabile deviando verso l’impronosticabile. “Fade Away” è così un rallentamento introverso in minore che ondeggia su una coda percussiva inesplosa e su un continuo crescendo di spasmodica tensione; “Farewell” è una specie di mesto blues sbilenco vagamente stonesiano, mentre “Rest Easy” è un’oasi di diafana psichedelica celeta sotto le mentite spoglie di un altro blues agonizzante. Chiudono gli otto minuti della torrenziale “Oh Sister”, feroce e agitata, giocata su un ritmo spezzato e sull’impietoso frastuono chitarristico che ingoia l’interminabile coda di un album tanto granitico quanto sorprendente nel suo singolare, repentino, inatteso mutamento di rotta. (Manuel Maverna)