LCD SOUNDSYSTEM  "American dream"
   (2017 )

James Murphy è cofondatore della casa discografica DFA Records. Scorrendo i nomi prodotti si possono trovare gli Arcade Fire, ma anche nomi dell'indie elettronica, della disco dance e del post-punk. Gli LCD Soundsystem, progetto di Murphy, convoglia assieme tutte queste direzioni, creando un indie punk disco... difficile da definire, ma facile da riconoscere. L'album "American Dream" attinge a piene mani dal sound che ha caratterizzato e influenzato la musica indipendente dai primi anni del duemila ai giorni nostri. Ritmi regolari e ossessivi di batteria, suono di basso elaborato e a volte sostituito da un synth succoso (come in "Tonite"), la voce di Murphy che mantiene un'attitudine punk e beffarda tutto il tempo, e chitarra che gioca con gli effetti, in certi momenti rievocando i suoni di Robert Fripp ("Change yr mind"), a volte suonando in maniera più tagliente e decisa ("Emotional haircut"). Le canzoni più o meno mantengono le stesse caratteristiche (a parte l'ultima, "Black screen", che vedremo alla fine). I testi sono una riflessione, ironica ma molto profonda e sincera, sulla scena alternativa. Non c'è nostalgia alcuna, ma c'è la consapevolezza che un certo periodo è al termine. L'indie, da forma musicale critica verso il mainstream delle major, è ormai diventato esso stesso un mercato grande e con delle regole sempre più rigide. Chiaro quindi che alcune intenzioni dei primi tempi risultano adesso, come succede sempre, stravolte. E pare che la musica qui voglia farlo notare. I suoni di tastiera sono un po' vintage, ma non troppo, si tratta di quel vintage che ora è in voga, quindi al fin della fiera sono contemporanei. Solo che i loop melodici sono ripetitivi e alienanti, le strutture delle canzoni sono tutte allungate: è come se questi suoni fossero parodia di loro stessi, e trasportino verso una riflessione sugli stilemi, portati volutamente qui all'eccesso. James in "I used to" canta ripetutamente: "I should try to wake up". Da che tipo di sogno si vuole svegliare? Le influenze che dichiara sono quelle di tutti artisti recentemente passati a miglior vita: Lou Reed, Leonard Cohen e David Bowie. A quest'ultimo pare essere dedicata l'ultima lunga canzone (oltre 11 minuti): "Black screen", che già dal nome sembra tributare "Blackstar", il sorprendente pezzo di 10 minuti di apertura che apre l'ultimo omonimo album del Duca Bianco, al quale lo stesso Murphy ha in parte collaborato. Durante tutto il pezzo, c'è un suono regolare, sintetico e quadrato, che ossessiona come un allarme che non si riesce a fermare, e sopra il quale nella seconda metà del brano improvvisa un pianoforte, che si focalizza su temi dolci e in un certo senso romantici. Un finale che si discosta da tutto il resto ascoltato in precedenza, che forse indica una nuova direzione, anche se in questo frangente sa di respiro vitale che non si vuole fermare. Infatti, gli ultimi secondi non sono neppure sfumati, la traccia è tagliata di netto. Così sembra che sia stata interrotta e resa inconclusa (quindi eterna) anziché farla "morire". E questo potrebbe essere il messaggio di quest'album, parecchio ostico al primo ascolto, se non si è abituati a questo genere. La batteria è quasi sempre in prima linea, assieme alla voce, e quindi per sentire il resto bisogna stare molto attenti. E dopo ripetuti ascolti, gradualmente la musica si insedia dentro, per colpire dove vuole colpire (cosa che molti indie han dimenticato di fare). Se non è punk questo! (Gilberto Ongaro)