VAN MORRISON "A sense of wonder"
(1986 )
In copertina il faccione rubicondo di un Van Morrison in versione “creatura silvana” sbuca da una variopinta cornice di foglie autunnali. Come se non bastasse sul retro vediamo lo stesso ometto rotondo e tarchiato, in un improbabile atteggiamento da fiero discendente degli antichi Celti. Immagini buffe, che ci mostrano un “Van the Man” assolutamente privo di quello che i francesi chiamano “physique du role”. Ma qualsiasi dubbio insinuato da tale bizzarra confezione è destinato ad essere rapidamente fugato dal contenuto di questo “A Sense Of Wonder” (1986): si tratta di puro, autentico Van Morrison, più che mai immerso in quello stato di costante esaltazione dello spirito e dei sensi che abbiamo conosciuto fin da “Astral Weeks” e che, con inevitabili alti e bassi, ha sempre segnato il suo percorso artistico. La sua anima è sempre aperta alle suggestioni più profonde, sia a quelle offerte dalla bellezza della natura, sia a quelle legate alle antiche tradizioni celtiche. Una perenne sensazione di meraviglia, come suggerisce il titolo, e come del resto ripeteva con ostinazione il verso con cui ci aveva congedati nel precedente “Inarticulated Speech Of The Heart”: “I’m a soul in wonder…”. Altro evidente segno di continuità con l’altro grande album “celtico” è che qui troviamo la risposta all’appassionato richiamo contenuto in “Rave On, John Donne”, dove gli spiriti dei grandi poeti del passato erano esortati a risvegliarsi e a far sentire la loro voce. Ebbene, eccoli qui che puntualmente si manifestano e onorano con la loro autorevole presenza “A Sense Of Wonder”, facendone un capolavoro di arte visionaria. E’ William Blake, uno dei poeti prediletti dell’irlandese, a prendere personalmente la parola in “Let The Slave”, che incorpora la sua poesia “The price of experience”, declamata dalla voce di Van Morrison, per l’occasione profonda e tremante di commozione. Fa da sfondo ideale per questi versi una musica che il coro delle due “vocalist” e il sacro suono dell’organo di John Allair riescono a rendere quasi liturgica. Lo stesso Blake influenza anche molti versi dello stesso Van, che il cui potere ipnotico risiede nella ripetitività ossessiva del loro inizio, con minime variazioni alla fine di ogni verso. Tipico esempio “The Master’s Eyes”, blues lento e sofferto, che acquista ulteriore spiritualità con l’apporto di tipici cori gospel. Analoga solennità troviamo in “What Would I Do”, e qui è veramente difficile riscontrare qualche traccia dell’agile e ballabile soul originale, firmato Ray Charles. Eppure è proprio lui: le parole sono le stesse, e anche la musica, sia pure con battute dilatate a dismisura, che lasciano spazio a silenzi inquietanti. Arthur Rimbaud è citato come esempio di quell’angoscia esistenziale nota come “ennui” o anche come “spleen” (difficile trovare il termine equivalente in italiano). Ciò che sorprende è che in “Tore Down à La Rimbaud” questo stato d’animo trova sfogo in un brillante soul, completo di scoppiettante assolo del sax di Pee Wee Ellis. Simile animazione ha “Ancient Of Days” che, pur senza copiature, sembra proprio il suo seguito ideale. La natura e la sua magia che si rinnova ogni anno, la convivenza di concreti alberi con le creature immaginarie che, secondo le antiche leggende celtiche, si nascondono negli anfratti più oscuri dei boschi, è alla base del misterioso fascino di “A Sense Of Wonder”. La title-track, con il suo incedere maestoso, punteggiato dal cupo rimbombo delle percussioni, rievoca il silenzioso mistero di un bosco invernale (“è facile descrivere le foglie in autunno ed è così facile in primavera, ma durante i mesi di Gennaio e Febbraio è davvero una faccenda diversa…”). Proprio a due di questi personaggi che vivono nei boschi è intitolato un delizioso “reel” strumentale tipicamente celtico, pieno di brio: è “Boffyflow And Spike”, in cui possiamo apprezzare l’agilità delle chitarre di Chris Michie e dello stesso Van, in grande spolvero. L’altro strumentale è l‘affascinante “Evening Meditation”, un’oasi melodica di suoni rarefatti in cui spiccano i netti rintocchi delle tastiere, secondo uno stile che possiamo ritrovare in certe colonne sonore di Vangelis. E’ un momento d’incanto, di estatica contemplazione della natura. “If You Only Knew” è certamente un episodio gradevole, ma la sua sensuale ballabilità latina sembra aver poco a che fare con il clima del disco e, più in generale, con Van Morrison. In effetti è presa in prestito da Mose Allison, mentre è morrisoniana “A New Kind Of Man”, forse l’unico brano un po’ grigio in un album che, se all’inizio può dare l’impressione di essere un po’ cerebrale, finisce per dimostrarsi espressione compiuta e matura di profonda spiritualità, e soprattutto di sensibilità senza confini. E sono queste le doti che fanno di Van Morrison un artista più unico che raro. (Luca "Grasshopper" Lapini)