GLOOM "Catharsis"
(2017 )
Da questo piccolo gioiello di disco, otto tracce per trentaquattro minuti, sai già fin da subito cosa aspettarti.
E’ il suo bello: per una volta almeno, così sia. Il minuto, aggraziato, introverso splendore per pochi intimi è tutto racchiuso nella prevedibilità che porta in dote, un’aura di genetica melanconia che non equivale per forza ad oscurità, abisso interiore, bla bla bla.
Precisazione d’obbligo: astenersi perditempo, trattasi di gothic-rock. Ma insolito. Luminoso, addirittura.
Io ad esempio scrivo di “Catharsis” - secondo album del quintetto slovacco Gloom otto anni dopo il debutto di “Nostalgia” - in una domenica pomeriggio di sole e d’azzurro, mentre mi risuona in qualche anfratto del cuor - e non soltanto in cuffia - la cavalcata di “Souls Walk Apart”, un di-vi-no compendio degli stilemi (si dice così, no?) che connotano il dichiarato genere di appartenenza.
Ben poco mi importa che questa deliziosa band provenga – ribadisco, ed absit iniuria verbis – dalla Slovacchia, non proprio culla di memorabili talenti musicali, e che proponga cose strasentite, magari anche già defunte e scordate, al più conservate come reperti storici di un’era lontana, vestigia di una corrente che mai è riuscita ad evolversi, a superare sé stessa, a mutare pelle e variare un linguaggio fossilizzato oggi nelle poche sacche di sopravvivenza che si è conservata.
Questo album celebra e sublima una mia passione, di fronte alla quale perdo obiettività. Negli otto brani che lo abitano alberga un morbido precipizio, una bolla spazio-tempo romantica, non infernale. La musica sofferente e languida dei Gloom non ha mai il taglio plumbeo e la subdola maniacalità dei Sisters Of Mercy, né quello sciamanico dei Fields Of The Nephilim: semplicemente, è intrisa di una dolce tristezza declinata in ballate che ricordano i primi Mission. Melanconia in purezza è quella che stilla dalla squadrata elettricità – con violoncello in coda – di “Heart Dead Remains”, roba che potrebbe stare tra “A Night Like This” e “Charlotte Sometimes”, indovinate un po’ di chi: e non a caso i ragazzi (si fa per dire, è gente in ballo da quindici anni e più) infilano una cover di “Lovesong”- indovinate un po’ di chi – perfetta nella sua fedeltà appena scalfita da un’impostazione più roboante e meno fanciullesca. Dettagli.
In “Catharsis”, pubblicato per l’etichetta Metal Age Productions, c’è tutto, ma proprio tutto quanto si conviene: le svenevoli note di pianoforte di Baška Petrášová (anche voce celestiale nella seconda parte di “Lillyan”) a contrappuntare melodie meste in minore, i chitarroni distorti sì ma solo quanto basta (“Fatal Trust”), il canto di Martin Pazdera marziale e baritonale, una serie di ritornelloni da struggersi l’anima, sassate frenetiche (“No One Ever”) e rare oasi di stasi passionale (“Catharsis”).
Resta il commiato ovattato di “The Last Chapter”, sette minuti di ballata dimessa e monocorde a chiudere il cerchio senza una sorpresa né una nuova idea, ma in un abbraccio di infinita tenerezza, con un pregevole assolo di chitarra (tanto per gradire) ed un chorus corale infinito e ciclico che sa di addio, un po’ come la “Marian” di Eldritch & soci tanto, tanto tempo fa.
Questo è il gotico, una sottile suggestione che sa di ricordi, quelli più profondi, non sempre i migliori.
Po esse fero o po esse piuma, può essere tenebra o può essere luce: oggi, stranamente, è stata luce. (Manuel Maverna)