LOURDES REBELS  "Lolita"
   (2017 )

Figli del nulla o di una misteriosa onda di riflusso, i Lourdes Rebels da Parma sono una coppia di assaltatori sonici – paradossalmente morbidi e sballati - che amplificano la lezione impartita, tra gli altri, da Heroin In Tahiti e Squadra Omega, gente la cui costruzione teorica e concettuale è per certi versi affine a quella declinata in “Lolita”, pubblicato per Aagoo Records e folgorante, ipnotica prosecuzione del discorso iniziato col debutto del 2015 “Adventures In Snuff Safari”. Il loro è un mondo distorto visto attraverso il prisma di specchi deformanti, un gigantesco trompe-l’oeil basato sull’astrazione, quasi fosse la colonna sonora di un film che non c’è, Carpenter, Herzog, Guido & Maurizio De Angelis riassunti in catene di suoni senza padri né figli, a metà strada tra raggiro, sperimentazione, no-wave, nonsense, goliardia. In “Lolita” trova posto di tutto un po’, in prevalenza strumentali sghembi, con le poche voci ridotte a brandelli distanti, storpiate anch’esse per non tradire debiti o fragilità, soprattutto per non cedere a facili richiami o a qualche improvvida eco di chissà chi o cosa. Succede in “Rimini Rimini Rimini!”, scherzo serioso che ipnotizza alla vana ricerca di un significato tra variazioni ingannevoli e malcelata futilità; e se “Init Tar” lambisce addirittura i Japan, il surf bislacco dai risvolti psych e space di “Shivering Sneer” gonfia la bolla fino ad esplodere (o implodere?), corroborando l’impressione di un’operazione eminentemente intellettuale che non rimane fine a sé stessa nel momento esatto in cui diviene tentativo fondante di qualcosa. Ma di cosa? Per ora l’aspetto ludico sembra prevalere, ma potrebbe mutare in preludio, sempre che davvero lo voglia. A conferma, la figura ossessiva e nevrotica della title-track viaggia dritta verso il nulla ad un passo vagamente kraut, a suo modo strafottente e presuntuosa nella convinzione di poter uccidere la forma-canzone e soprattutto l’idea-canzone, indicando una qualche via d’uscita e di allontanamento dai cliché, ma soffocando al contempo ogni canone di frivola piacevolezza. L’ascolto è arduo pure nel punk sbracato di “My Socrates”, nascosto tra maglie rumoristiche che schermano i brani dietro il paravento di canzoni che – dubbio legittimo - proprio non ci sono perché non ci devono essere. Così “Rock’n’roll Royce” apre su un punkettaccio robotico da Alberto Camerini, “Frankenstein vs Lolita” scava un solco fantasmagorico per basso incupito, vocine e rumori di fondo, la conclusiva “Humbert Humbert” naviga fra tropicalismi e bossanova offrendo una lounge sbrindellata che stenta ad intrattenere mentre parli di niente ad un party con l’open bar. Quali sviluppi, quali evoluzioni? Potenzialmente infiniti, come in tutta la psichedelia latu sensu: è forse la ratio ultima di un disco visionario, allucinato, stralunato, inquietante, spettrale, delirante, un buco nero che prima di inghiottire tutto si concede la possibilità – una ed unica - di essere qualcosa di veramente interessante. Questione di fascino, di incoscienza, di aperture a soluzioni insondabili. (Manuel Maverna)