GENESIS "Wind & wuthering"
(1976 )
Due album nello stesso anno, evento rarissimo di questi tempi, e in genere si tratta di operazioni commerciali: si deve battere il ferro della popolarità di “nuove scoperte” finché dura (e in genere dura poco). I Genesis nel 1976 avevano ancora una tale sovrabbondanza di inventiva da consentire loro non solo di superare brillantemente la dipartita di Peter Gabriel con un capolavoro (“A trick of the tail”), ma di sfornarne a breve termine un altro. Peccato che fu il loro canto del cigno: l’abbandono da parte del timido e occhialuto chitarrista Steve Hackett sarebbe stato ben più traumatico di quello del teatrale e carismatico Peter, e allora sì che sarebbe iniziato il declino, inesorabile. Ma “Wind and wuthering” è un bellissimo disco, che da cima a fondo regala sensazioni tipicamente autunnali e crepuscolari. Ormai quindi si avvicina il periodo ideale per un ascolto in sintonia con gli stati d’animo che il ritmo delle stagioni provoca in noi (o per lo meno nei più sensibili). E’ chiaro che anche in altri mesi non ci è preclusa la comprensione della sua atmosfera serenamente malinconica, però sicuramente d’autunno è più facile. Dicendo “serenamente malinconica” ho già detto praticamente Tony Banks: qui siamo veramente nel suo regno. Quasi tutti i brani più rappresentativi sono sue composizioni, ma anche negli altri è sempre presente la sua inconfondibile impronta. Date queste premesse, si può facilmente intuire che l’album è costituito quasi interamente da lenti, o al limite da tipici lenti banksiani, con potenti impennate sinfoniche. I 9 minuti di “One for the vine” sono esemplari: dall’inizio sommesso e triste al finale strumentale, di rara intensità, è difficile rimanere indifferenti. Le lacrime sono in agguato anche nello struggente finale di “All in a mouse’s night” (ma anche il resto buttalo via!). “Afterglow” è in assoluto una delle composizioni più ispirate dei Genesis, tutta costruita sulla preparazione ad un finale maestoso e “corale”: in questo caso l’etichetta di “rock sinfonico” (che espressione bastarda!) sembra davvero appropriata. L’unica cosa che non mi ha mai convinto è la sua collocazione alla fine del disco, dopo un lungo e possente intermezzo “orchestrale” (“Unquiet slumbers for the sleepers… In that quiet earth”) che la isola quasi del tutto. Quisquilie: la sostanza resta, ed è parecchia. Anche chi è riuscito a non commuoversi fino a “Blood on the rooftops” difficilmente potrà resistere a questo capolavoro, dovuto all’insolita coppia Collins-Hackett (Phil Collins non ha fatto solo canzonette). Introdotto dalla limpida chitarra classica di Steve Hackett, ha il suo culmine nel motivo centrale, di una disperazione tale da smuovere i macigni. Anche l’unico brano veloce, “Eleventh Earl of Mar” presenta una bella pausa incantata e fiabesca. Quasi nulla di ordinario: giusto “Your own special way”, zuccherosa e semplicina, prima prova compositiva di Mike Rutherford, non a caso il meno creativo dei suoi. Ancora una volta quindi un capolavoro targato Genesis, ma con questo l’incredibile serie è finita. Questa volta davvero. (Luca "Grasshopper" Lapini)