LIGABUE  "Ligabue"
   (1990 )

In principio la vita dei rocchettari era dura. Sulla neonata Videomusic ne fecero anche un programmino (“Heavy con Kleever”), raccontando le difficoltà esistenziali di chi preferiva gli Ac/Dc ai Ricchi E Poveri. Cercare poi un italico che roccheggiasse in vernacolo era pressochè impossibile, tolti Vasco e la Giannona senese. Tutti cloni di qualchedunaltro: gli Sharks che sanremizzarono con chiome a metà tra i Beehive e gli Europe, Massimo Priviero che probabilmente aveva in tasca un santino di Little Steven. Poi, alla fine degli 80’s, qualcosa cambiò: uscirono allo scoperto i Litfiba, e dalla Bassa reggiana arrivò lui. Già collaboratore di Pierangelo Bertoli (che aveva pubblicato qualche anno prima la sua “Figlio di un cane”), già con gli stivali scalcinati da anni di tour tra Novellara e Villa Minozzo, il suo primo album arrivò nell’estate 1990, tra una notte magica e un aivgatzepauer. Aria nuova a dir poco: c’era la voglia di America, certo, cantando di Marlon Brando, ma c’era soprattutto la voglia di cantare la vita di tutti i giorni, sulla Via Emilia, senza fronzoli e imitazioni. Ok, il bulbo poteva ricordare quello del primo Bono Vox, ma – è il caso di dirlo – “non stiamo a guardare il capello”. Le radio e le disco-rock accolsero “Balliamo sul mondo” come fosse arrivata da un novello Messia, e un po’ ovunque nell’album si immaginavano cosce, nebbie, zanzare e locali a cui qualche anno dopo avrebbe dato del tu. C’erano stelle senza cielo, maggioloni cabriolet, il Bar Mario, insomma: la migliore dichiarazione di intenti che un esordiente avrebbe potuto lanciare. Non sfondò (vinse un Festivalbar giovani superando all’applausometro le saltellanti Lorimeri, quelle di “Tell me why”: se ve la ricordate vincete un loro disco autografato, forse l’unico venduto) al punto da vedere in lui il futur-riempi-stadi, ma si capiva che non era più la stessa solfa. (Enrico Faggiano)