UNORSOMINORE.  "Una valle che brucia"
   (2017 )

Come direbbero i giovani, questo disco è tanta roba. Ma dubito siano proprio i giovani l’uditorio di elezione di Emiliano Merlin, in arte unòrsominòre., artista che da una decina d’anni abbraccia, forse suo malgrado e non senza distaccarsene, la dimensione del cantautore, discostandosene con fierezza ed ergendosi a scomodo e spinoso interprete di una vis polemica evidente ed ostentata: è il copione sputato dritto in faccia in “Una valle che brucia”, undici tracce pubblicate da diNotte Records in contemporanea con le tre dell’ep “Analisi logica” (inclusa quella “Pezzali” che non pochi riscontri ottenne un lustro fa), terzo album solista di Emiliano a sei anni di distanza da “La vita agra”, lavoro ben accolto all’uscita e riportato in scena nel 2014. Opera che sovverte, almeno in parte, proprio quel manuale del cantautore che Emiliano comunque egregiamente conosce e mastica, fregiandosi e fregandosi dell’etichetta e del protocollo, “Una valle che brucia” dispensa schiaffi a tema con quasi nessuna ironia ed una insistita pervicacia: album spigoloso che trabocca di umori, odori, sangue e patimento (la tremenda sassata animalista di “Mattatoio”), bestiario disincantato eretto cattedrale di un linguaggio vivido che si pasce di un humus malsano, disco intriso di fetore, rabbia, brutale realismo, disillusione, senso carnale di una visceralità (sovra)esposta all’inverosimile, “Una valle che brucia” è un diluvio di parole aperto dall’aria à la Lucio Dalla de “Il demone meridiano” e chiuso dall’indolenza introversa e minimale di “18 aprile” su foschi scenari di morte e ricordi. Nell’inferno di mezzo, anche temi di per sé non originali vengono filtrati per il tramite di uno sguardo feroce e di una lingua dura, ruvida, abrasiva che non risparmia nulla e nessuno, nemmeno Dio, bersaglio prediletto nell’elucubrazione atea di “Hubris, o preghiera del senza dio”, neppure la patria, bastonata in “Canzone del partigiano Giovanni (Uomini contro, parte 1)”, nè l’ignavia dei vigliacchi, messi nudi al muro a confrontarsi con esempi di eroismo vario e con la propria palese inutilità (“Canzone di Alekos”). I ricami della musica, di cui Emiliano fa un uso talora convenzionale (la ballata desolata di “Clinofilia”, la dimessa “Varsavia”, splendente nel suo grigiore), a volte più spinto (l’ira antimilitaresca nei sette minuti di “Uomini contro”, con un andamento teatrale à la C.S.I.) risuonano rivitalizzanti ma secondari: quello dei testi è il reale elemento fondante, quasi le divagazioni strumentali – i molti contrappunti, le piccole variazioni rumoristiche - fossero sì efficaci supporti, ma in fondo inessenziali per ingigantire ulteriormente la già statuaria levatura di un lavoro che tracima di assortite (dis)umanità, spavaldo ed impietoso, convergenza non così improbabile tra la poesia pesante di Ivano Fossati e l’espressività del tutto nuova di cui è ideatore ed interprete l’inarrivabile Jacopo Incani. (Manuel Maverna)