MANAGEMENT DEL DOLORE POST-OPERATORIO "Un incubo stupendo"
(2017 )
Arrivati al loro quinto album, i Management del Dolore Post-Operatorio ci stupiscono con una nuova evoluzione nella loro gestione della sofferenza. Il post-punk dei lavori precedenti inizia a toccare lidi più indie pop ma senza dare la sensazione di uno stravolgimento della personalità dei MaDe DoPo, che anzi ne esce rafforzata. "Un incubo stupendo" appare come una reazione ai racconti degli album precedenti. Dopo avere esplorato negli anni passati tantissime situazioni di disagio del nostro tempo, ad esempio quella di "Scrivere un curriculum" (2015), quella dei cani che impazziscono nei terrazzi ("Nei palazzi", 2010), quella di chi volgarmente considera la bellezza "solo un modo per scopare" ("Hanno ucciso un drogato", 2014), si può affermare che "questa è una carezza contro la tristezza", come cantato ne "Il tempo delle cose inutili", quarto pezzo del nuovo Lp uscito il 10 marzo 2017. Già nei due primi brani si respira una sorta di aria di nuova resistenza alle difficoltà, trasfigurata nell'amore di un uomo verso la propria donna. Nel primo, "Naufragando", egli dice che farebbe di tutto per vederla ridere, "se potessi sarebbe il mio lavoro". "Il suo inferno sono gli altri, hanno fame dei suoi spazi, e adesso che stiamo naufragando, mi chiede: 'Sei pronto per la fine del mondo?' " Cosa aggiungere a queste parole? "Il suo inferno sono gli altri" è un concetto che provano sulla propria pelle tutti coloro che vivono un amore osteggiato; ma lei, consapevole, di questo gli risponde col coraggio, per affrontare l'apocalisse imminente, che può rappresentare qualunque sfida del presente e del futuro prossimo. La musica, malinconica e sorridente allo stesso tempo, accompagna lo sguardo tenero (con un glockenspiel) verso la ragazza che si addormenta dimenticando che "certe persone sono proprio cattive", mentre in certi punti presenta anche delle dissonanze (dopo l'evocazione dell'abisso). La seconda canzone, che è la titletrack, continua questa resistenza: "Ho scelto te perché sei reale come tutti i problemi, e dei problemi mi fido". Una new wave più veloce e sostenuta da un basso distorto, sorregge questa relazione: "E non funzionerà, deluderemo tutti, ma questo è il posto dove voglio stare". Alla distorsione di base dei brani corrispondono spesso e volentieri dei brevi lick melodici di chitarra pulita, scelta che si fa evidente nel brano moderato "Il vento", dove la chitarra opta per un riff in staccato. Nonostante la sonorità alternative, il ritornello è costruito in modo molto orecchiabile. "Sto aspettando, il vento, sto aspettando qualcosa di speciale, mi sento come un fiume che vuole diventare mare". Le influenze post punk continuano nella già citata "Il tempo delle cose inutili", dove un'efficace ritmica di basso trasporta le brevi melodie di chitarra, che vira verso l'alternative inglese ne "Il mio corpo", brano che ricorda un pezzo à la Arctic Monkeys in strofa. Il verso "ma no, ma dai, ma che, non farmi ridere" è molto Bugo, e nel complesso questa canzone presenta un'inconsueta allegria per questa formazione. Il brit rock si fa sentire anche nella successiva "Una canzone d'odio", dove la relazione di coppia mostra segni di cedimento, e suscita ilarità ("la vuoi smettere con quel cellulare, ti giuro adesso te lo butto nel cesso"). Si torna nell'indie pop con "Esagerare sempre", un brano allegro ma in effetti poco originale, potrebbe averlo scritto qualunque gruppo attuale, con un coro festaiolo, il testo che ricerca una frivolezza di cui gli altri brani non hanno bisogno: "Ci fanno schifo le rinunce, la dieta falla tu (...) vogliamo tutto e tutto non è abbastanza, e siamo fatti così, ci piace godere", anche se non è scevro da una riflessione alla fine "anche letto a volte ci sentiamo in prigione". La chitarra esegue un riff ruffiano molto catchy, ma forse un brano così ci vuole, sdrammatizza in mezzo alle altre perle di profondità, è come un po' prendere fiato. Anche "Visto che te ne vai" è una canzone ironica, ma la personalità del gruppo ritorna, nonostante i cori adolescenziali che fanno "Oh-oh-oh". "Marco il pazzo", introdotta da un charlie effettato, risale al livello delle canzoni iniziali e narra di un bambino iperattivo che raduna i suoi simili per una rivoluzione. Quel bambino ribelle potrebbe essere in ognuno di noi, quando non ci lasciamo omologare. Gli psicologi vorrebbero fare ordine nella sua mente, ma per Marco questo significherebbe "riaprire nella sua testa il manicomio". Il testo è scritto in maniera funambolica: "aveva sempre odiato (...) la gente fotocopiata, radiografata, scannerizzata, surgelata, e in mezzo ci sei pure tu che c'hai l'asterisco del menù". Il brano di chiusura è una beffarda derisione del mercato di canzoni, "Ci vuole stile", che prima dice quasi in maniera critica che bisogna scrivere ritornelli che ti restano in testa, e poi diventa esso stesso un potenziale tormentone: "Ci vuole stile anche per morire, ci vuole stile, non c'entra niente col vestire". Un pezzo con reminescenze Blur che chiude l'album con una frase che non si sa se prendere sul serio o se sia un finale sarcastico: "Lo stile è una specie di eleganza interiore". Fatto sta che con quest'album i Management del Dolore Post-Operatorio potrebbero cambiare il loro lungo nome in Xanax, in quanto adesso riescono a rappresentare bene quella fase in cui finalmente si sta pian piano uscendo dalla depressione. La loro musica è antidepressiva: se prima dicevano che a loro "piace dar fastidio alla gente", ora le liriche non sembrano crogiolarsi nel dolore ma, anzi, sanno accettarlo, accoglierlo ed affrontarlo, con la giusta leggerezza che ci vuole e soprattutto con una sorta di dispettosa resistenza al destino avverso. Una forza che rappresenta davvero bene ciò di cui hanno bisogno le ultime generazioni. (Gilberto Ongaro)