CLOUD NOTHINGS "Life without sound"
(2017 )
Avessi ancora i miei vent’anni e la ragazza che tu sai, oltre a quella spiccata tendenza a crogiolarmi in una culla di melanconico anticonformismo e distacco dalle masse, i Cloud Nothings sarebbero di gran lunga la mia band preferita. Di anni oggi ne ho più del doppio, ma certe cose non cambiano mai, la scintilla non si estingue davvero, basta quel suono a richiamare ciò che eri e a ricordarti ciò che sei sempre stato.
I Cloud Nothings vanno presi a scatola chiusa, come una medicina di cui fidarsi: se ne sei convinto, faranno effetto e non ti deluderanno. I loro brani – un corpus già piuttosto consistente di quattro album ed un ep -si somigliano tutti terribilmente: sassate in quattro quarti condotte a ritmo rapido, bordate elettriche a traghettare verso il nulla litanie frenetiche che trattano di perdite, sconfitte, disagio esistenziale, esili storie di piccole vite buttate un po’ qua un po’ là, una road to nowhere che non lascia dubbi sull’essere tale.
Dylan Baldi da Cleveland, Ohio, ha appena venticinque anni ed è in giro dal 2011 con gli occhialoni spessi e l’aspetto da nerd; alto, allampanato, non bello, con i suoi accoliti dall’aria altrettanto dimessa propone incrollabile un inconfondibile noise-pop incupito, squadrato e diretto, un blocco di elettricità edificato su un chitarrismo compatto e spigoloso che porta con sé i semi di una intima inquietudine post-adolescenziale mai superata.
“Life without sound”, più accomodante e meno avviluppato su sé stesso – forse pacificato, si direbbe – rispetto ai precedenti capitoli, è album dal sound americano se ne esiste uno, sovente virato in tonalità maggiori, un lavoro di bruciante intensità che regala nove monolitiche ballate dritte come spari, condite da quella slackness disfatta che vena il canto di Baldi mentre evoca demoni personali e solitudini assortite.
E’ un percorso disturbato ed intristito, aperto dal pianoforte che introduce l’amara ballad di “Up to the surface” e chiuso dal feroce ribollire rumoristico di una “Realize my fate” trafitta dalle sguaiate grida gutturali à la Helmet che ne devastano la coda in un crescendo di palpitante tensione. Nel mezzo, su un tappeto di detriti mutuati dal pop sbilenco dei Pavement come dalle contorsioni più accessibili dei Sonic Youth (“Sight unseen”), vanno in scena sia la versione introversa – nevrosi anziché intrattenimento – dei Weezer (“Internal world”) sia la slabbrata velocizzazione garage di “Darkened rings”, scarna e incalzante, passando per le suggestioni curesque di “Modern act” e per il Tom Petty in acido (sic!) di “Enter entirely”, giù fino alla cadenza marziale di “Strange year”, sventrata da urla parossistiche e preludio al maelstrom distorto che inghiottirà il disco nei cinque agonizzanti minuti conclusivi.
A stagliarsi su tutto, l’abituale propensione a saturare i brani sotto scariche di elettricità stratificata à la Therapy? ed un senso di generale disillusione, quasi un nichilismo fatalistico aspro e rinunciatario, mood che permea un album sì lontano dalle divagazioni psicanalitiche del recente passato, ma la cui scintilla ispiratrice – anche per Dylan Baldi - è sempre la stessa. (Manuel Maverna)