TRAFFIC  "John Barleycorn must die"
   (1970 )

Lo so, questo non è un sito letterario, ma il mio pensiero va dritto a “Ricordi di un bevitore”, (sottotitolo “L’incontro fatale con John Barleycorn”), sincero e profondo libro-confessione di Jack London, grande e sottovalutato scrittore americano, più noto per romanzi d’azione come “Il richiamo della foresta”.

Chi è John Barleycorn? Nella tradizione popolare inglese e americana da secoli è colui che incarna lo “spirito del grano”, la sua facoltà di trasformarsi in alcool (birra, whisky o quello che preferite). Un ometto a cui non daresti una lira, raffigurato con un corpo a forma di botte e una faccia a luna piena dal sorriso ebete, ma alla lunga capace di dimostrarsi più forte di uomini temprati da una vita piena di fatiche.

Jack London, con l’esperienza di chi è stato a lungo schiavo di John Barleycorn, ci fa capire, e senza falsi moralismi da proibizionista, quanto sia grande la sua forza, come sia sempre disponibile quando c’è da superare qualche ostacolo, come ci faccia sentire più sinceri, più in sintonia con il mondo e al tempo stesso scavi lentamente un solco tra noi e gli altri.

Questo personaggio ambiguo, invitante e repellente, deve aver colpito anche la fantasia dei Traffic, che nel 1970 ripresero una delle innumerevoli versioni della canzone popolare “John Barleycorn (Must Die)” per trasformarla in una delle ballate acustiche più ispirate di sempre, con una trama delicata di chitarre, spennellata qua e là con colori crepuscolari da un flauto fiabesco. Non c’è che dire, è pura magia, ma è come un maestoso pino a ombrello che spunta non si sa come in un fitto bosco di querce: con i Traffic e con la loro musica c’entra come il culo con le quarant’ore (antico detto etrusco, di etimo incerto).

Il resto di questo disco memorabile sta lì a dimostrare che il territorio di Steve Winwood & C. è un altro. Il cosiddetto “Traffic sound”, così originale da meritarsi un nome specifico, è un soul-jazz di base condito con una strumentazione ricercata e barocca, degna del progressive, allora nascente. Difficile da inquadrare quanto eccezionalmente moderno per l’epoca: i Traffic anticiparono di almeno un decennio il revival jazz degli anni ’80. Fin dall’iniziale “Glad”, brillante strumentale con robusta base ritmica e suggestivo sfondo di organo, su cui sia il piano che il sax folleggiano con le loro acrobazie, si sente che questi qua viaggiano parecchi anni avanti.

“Freeedom Rider” non fa che confermarlo, con il valore aggiunto dei geniali svolazzi di flauto di Chris Wood e della voce dal timbro nero, tipicamente soul, del bianchissimo e inglese Steve Winwood, a tratti reincarnazione da brividi di Otis Redding, all’epoca scomparso da poco. Grande show di tastiere anche in “Empty Pages”, con il classico sfondo organistico punteggiato da preziose e scintillanti note jazz di pianoforte, mentre un po’ più fedele ai canoni blues, ma sempre con ampia libertà di assoli fantasiosi, è “Stranger To Himself”: in questo caso è la chitarra elettrica a spadroneggiare.

Nella breve “I Just Want You To Know“ il batterista Jim Capaldi (morto nel 2005, a 60 anni) con colpi secchi e ravvicinati si permette di anticipare lo “stile Police” di Stewart Copeland.

Il disco, quello originale, finirebbe qui, con i nostri orecchi già satolli, ma nel CD hanno aggiunto ottime “bonus tracks”, di cui almeno una merita un cenno: è “Every Mothers Son”, vera lezione di organo del Professor Steve Winwood. Questo capolavoro, al quale nessuno darebbe più di 50 anni, nacque in occasione dell’ennesima riunione di un gruppo dalla storia breve e travagliata, piena di scioglimenti, abbandoni e riunioni, eppure capace di lasciare una bella traccia nella storia della musica. (Luca "Grasshopper" Lapini)