SAINT LAWRENCE VERGE "Ashram"
(2016 )
A due anni di distanza dal prezioso debutto di “This is the way”, inopinatamente relegato a gemma per pochi, “Ashram” segna il ritorno su etichetta German Shepherd Records dei modenesi Saint Lawrence Verge, passati dalla iniziale formazione a tre ad un quartetto, con l’ingresso in formazione di Nauthiz al basso. Se ieri “This is the way” era uno scrigno di meraviglie dal quale si libravano idee fluttuanti in costante divenire, fucina di creatività capace di fondere post-rock, indie, suggestioni cameristiche, dilatazioni, riverberi, echi prog, alternanze di luce (poca) ed ombra (molta), evoluzioni impronosticabili, arabeschi che lasciavano presagire o ulteriori impavide spinte o, in alternativa, la scelta di indirizzarsi verso lo sviluppo di alcune delle tematiche affrontate, oggi “Ashram” riesce – in egual misura, forse di più – a disorientare, rinunciando almeno in parte a ciò che aveva solennemente ingigantito “This is the way”, ossia il suo vagabondare stilistico. La musica dei Saint Lawrence Verge (ri)diviene concreta, ma si eleva spiritualmente imbastendo un concept metafisico sulle origini e sul ritorno al cosmo, in un album che muove dall’interno (le prime tre tracce, identificate come “the roots”), prosegue innalzando lo sguardo al cielo (la parte centrale, “the ladder”, scala verso il ritorno) e conclude sulle soglie del ricongiungimento spirituale al tutto (gli ultimi tre brani, “the branches”) in un viaggio mistico tratteggiato già a partire dall’esplicito simbolismo della copertina. “Ashram”, guidato dalla vocalità composta ed intensa del baritono di Hatsya, qui divenuto io narrante e non semplice strumento aggiunto, è non soltanto opera straordinariamente impervia (pregevole il taglio letterario dei testi, ricchi di immagini elaborate in un inglese di impeccabile altezza), ma soprattutto espressione mai derivativa di una concezione artistica/antropologica/esoterica senza eguali. In cinquantatre minuti di una intensità quasi insostenibile drappeggiata in sfumature noir, la band ammannisce una celebrazione messianica, una sorta di rituale pagano che assume molteplici forme ed incarnazioni senza concedersi spiragli di chiarore alcuno. Il risultato è un blocco monolitico da cui si dipartono evocative propaggini oscuramente invitanti alla meditazione, un continuum che apre ingannevole sul movimento sostenuto di “Wings of oblivion”, procede su una inebriante “Nest of lights” (inizio in levare, ingorgo centrale con rullate di batteria degne della bauhausiana “Lagartija Nick”, placido finale estatico) e si allarga nella esitazione sospesa di una quasi drakeiana “Equinox” prima di scivolare nell’insistito rallentamento della fase mediana. L’album transita per il contorto strumentale post-prog à la Ronin di “Struggle fundamentals”, per la melodiosità haunting di “Ivory of the peaks” (con delizioso contrappunto di tromba) fino all’incupita accoppiata che lega idealmente la title-track e “Black woods”, sostenute da linee di basso che ricordano il fretless languido ed introverso di Mick Karn, attraversate da un tribalismo tetro fra David Eugene Edwards e talune lugubri divagazioni dei primi Genesis; siamo già nel trittico finale, quello dell’ascesi/ascesa, ove si fa largo un intento sperimentale che sfiora l’avantgarde nel collage impazzito e ondivago di “Past lives in one”, prima di dilagare nella inquieta chiusura incombente di “Cursed among the furthest lights”, girandola di tempi dispari ed intrecci armonici suggellati da un minuto e mezzo di litania chiesastica. Opera di strabiliante complessità che richiede di essere compresa per astrazione, lasciandosi fruire senza poter prescindere dalle sue componenti, “Ashram” è la superlativa conferma di una band che per profondità, sensibilità ed architetture sonore non è esplicitamente riconducibile a nulla e a nessuno, un act così insolito da travalicare i generi facendosene beffe, relegandoli al ruolo di orpelli inessenziali rispetto al disegno finale: una costruzione filosofica che si avvale della musica in un percorso tanto ampio da non potersi rinchiudere negli angusti anfratti di un semplice disco. (Manuel Maverna)