VANESSA PETERS  "The burden of unshakeable proof"
   (2016 )

Ci sono dischi che vorresti non finissero mai, album ascoltando i quali ci si augura spontaneamente, ad occhi socchiusi, che il prossimo brano sia semplicemente bello come quello appena terminato, se possibile quasi uguale, per non alterare la magia che li avvolge in una sorta di inatteso, perpetuo incantesimo. Vanessa Peters, trentacinquenne cantante texana già negli Ice Cream On Mondays fino allo split ufficiale della band nel 2010, ritorna a quattro anni di distanza dall’ultimo episodio solista (“The burn the truth the lies”) con un lavoro elegante, misurato, carezzevole, accogliente, opera che offre una personale interpretazione, colta e genuina, dell’Americana più radicale e radicata nella migliore tradizione d’oltreoceano. Testi eleganti veicolati da una voce cristallina, appena venata da una lieve slackness gentile, storie intime che procedono per immagini affastellate su uno sfondo in lento movimento, come il panorama visto da uno slow train in aperta campagna, parole distillate stese su canzoni che viaggiano composte ma vibranti, percorse da una graffiante tenerezza: questo è “The burden of unshakeable proof”, dieci tracce di ispirata, solitaria, impalpabile poesia. Album intriso di una sopraffina grazia che mai cede a rabbia o mestizia, al più avvolgendosi in spirali malinconiche o pulsante disincanto (una splendida “Delicate”), “The burden of unshakeable proof” dispensa una malìa defilata che veleggia sulle ali del più classico e confortante 4/4 da highway à la Richmond Fontaine narrando di speranze tradite, di ricordi vividi e sentimenti sparsi che divengono la parte per il tutto, il mondo in una scatola, la vita in un disco. C’è più Lucinda Williams che Eleanor Friedberger, più Eleni Mandell che Sheryl Crow, più normalità che altro nel country levigato di “Mending fences” o nel passo spedito di “Let’s do this”, c’è l’America intera nell’honky-tonk di “Maudlin laundry” come nell’aria dimessa che ammanta la pigra cadenza di “Atmosphere”; c’è la classe adamantina di una piccola grande artista, quella che dipinge a tinte pastello la ballata leggera di “Change your disguise”, la stessa che pennella un’immensa “Cage” lasciandola lievitare su un chorus memorabile che sa di sbagli e di incertezze, di cuori infranti e tempo perduto. Disco statuario nella sua apparente semplicità, lieve come un alito di vento, trasparente e profondo come lo sguardo penetrante di Vanessa, finestra sui labirinti dell’anima, sull’instabilità del vivere, sul senso ultimo delle cose. (Manuel Maverna)