DAN SARTAIN  "Century plaza"
   (2016 )

Pupillo e sodale di Jack White, Dan Sartain, sbilenco crooner dell’Alabama, ha da sempre fieramente optato per una carriera ai margini, percorso, il suo, tanto sotterraneo quanto coraggioso, nonché emblematico di una concezione di arte-vita peculiare e rispettabile. Inghiottito e risputato da un buco spazio-temporale, figura sfuggente e mutevole, isolata ed insolita, Dan calca caparbiamente le scene da tre lustri nell’arco dei quali, con prolificità incrollabile ed encomiabile entusiasmo, ha dato alle stampe ben otto album. “Century Plaza” è il più recente capitolo della sua nutrita produzione, otto tracce nelle quali questo oscuro folletto riprecipita agli albori ed alle origini di un sound tipicamente eighties: è un anacronismo tanto ostentato da non apparire datata affettazione, bensì ricorso consapevole ad una espressività solo in apparenza desueta, in realtà cifra stilistica che ne accresce l’allure. Album che procede per filiazione diretta dal corredo genetico di Alan Vega, “Century Plaza” disorienta immediatamente con la spavalda riproposizione di “Walk among the cobras”, suo classico incluso in “Vs. the Serpientes” del 2005, qui riproposto in versione electro-pop, riuscendo mirabilmente nell’intento di donare nuova linfa ed identico splendore ad un brano già di per sé statuario nella slabbrata veste garage delle origini, senza privarlo di quel fascino off che ne segnava il malevolo incedere. Su un beat metronomico che mai abbandona il disco fino all’ultima nota, Dan scava un percorso di scarna ossessività martellante, qualcosa tra i più oscuri Depeche Mode, mr. Brian Warner senza chitarre, i Visage meno fruibili, un Peter Murphy non-gotico ed un’astrazione dei Cramps, mistura tetra ed incombente di opprimente spleen e controllata devianza. Sotto la patina di una accessibilità di sola facciata scorrono sinistri il devastato psychobilly di “Black Party”, la cover fedele di “Wipeout Beat” di Vega, la reiterazione dilatata di “First Bloods” col suo solo di chitarra staccato e snervante, l’autoflagellazione della conclusiva “Feigning Ignorance”, ma soprattutto, mantra che si staglia imponente su uno sfondo di sonorità incupite ad arte, il rallentamento infernale di “Cabrini Green”: cinque minuti di danse macabre a passo di sabba sorretti da un synth liquido che ripete incessantemente lo stesso giro e da un canto filtrato, psicotico, intimamente violento. Album dolente e sofferto celato dalle mentite spoglie di una musica d’antan, “Century Plaza” restituisce l’immagine di un poeta minore, artista defilato il cui posto sulla ribalta sarà sempre troppo esiguo rispetto al talento di cui dispone ed all’ego che lo anima. (Manuel Maverna)