DANIO MANFREDINI  "Vivi per niente"
   (2016 )

Attore, autore ed affermato regista teatrale che certo non necessita di presentazioni, il 58enne Danio Manfredini è – di fatto – un debutant nel mondo della canzone, avvicinato nel 2012 con “Incisioni”, album che in sordina – quasi un divertissement – racchiudeva la personale rilettura personale di dodici brani italiani di varia epoca e genere (da Battisti ai Diaframma). Ritorna alla musica Danio con “Vivi per niente”, dieci inedite tracce tristi ed amare che stillano rassegnata desolazione, grigia passerella sulla quale si avvicendano personaggi, vite e sentimenti privi di speranza – fosse anche illusoria - di redenzione. Più Ivano Fossati nel timbro vocale, più Cesare Basile nell’inscenare bassezze e miserie assortite, Danio veste i panni del crooner dei recessi dell’anima, curando nel dettaglio, con quella stessa maniacalità di cui sovente narra, testi di vivido realismo, in un disco che diviene epifania di una condizione umana fragile e degradata. Pur rinunciando a calcare l’aspetto interpretativo, l’album sa offrire ampi squarci di nera poesia, privilegiando un arrangiamento sovente dimesso e monocorde, un mormorio contrito che si fa lamentazione, brace che cova ardente sotto la cenere di parole tese e vibranti; “Vivi per niente” è sostanzialmente un viaggio lento e faticoso nelle tempeste della mente – malata o corrotta che sia - condotto con garbo e misura, sorta di soffocante mantra mormorato a mezza voce, un salotto semivuoto dove figure indistinte siedono in penombra narrando le proprie storie inconcluse, abbozzi suggestivi, la parte per il tutto. Ma non c’è soltanto l’insania a minare la serenità dell’ascolto: regna, snervante clausura ovattata, una claustrofobica mancanza d’aria, aleggiano gli spettri del ricovero senza fine (toccante e stralunata “Ciao Buon Natale”, che apre il lavoro dichiarandone gli intenti), della dipendenza (“La fossa (Parco Sempione)”, con una delle rare impennate ritmiche), della detenzione (“Senza bisogno”). Si staglia imponente sul disordine delle cose un opprimente senso di morte che ovunque incombe e mai concede requie (“Un po’ caldo un po’ freddo”, con bel violoncello in evidenza), ricorre il tema del dentro/fuori, striscia infida la solitudine (“Cosa faccio io qui” con armonica dylaniana), sgocciolano i secondi a segnare l’ineluttabile scorrere del tempo, tra echi sparsi di Lilith-Rita Oberti (“Lettera”) ed accenni bucolici (“Per passare un po’ il tempo”) falsamente concilianti. E’ vero: mancano forse a questo album visivo un guizzo, un’impennata, una scarica elettrica che renda davvero memorabili pagine intrise di una confidenzialità sì intima, ma ardua da conservare intatta nella sua impurità sulla lunga distanza. Forse è ricercata, voluta – e con insistenza – la rinuncia di Danio a sovraccaricare ulteriormente di ferino espressionismo quei contenuti già di per sé così dolenti da scavare il solco fra l’intrattenimento e la riflessione, e forse l’album potrebbe funzionare come reading à la Clementi, ma poco conta: “Vivi per niente” resta opera a tema di incontestabile rilievo, la cui scelta di affidare il proprio messaggio alla forma-canzone è soltanto una delle molte opzioni offerte alla soggettiva, introspettiva interpretazione che ciascuno di noi ne vorrà fornire. (Manuel Maverna)