I CANI  "Aurora"
   (2016 )

Svariati i mondi che abitano la mente vulcanica di Niccolò Contessa, ex-ragazzo della cameretta a fianco, uomo nuovo rinato dalle proprie ceneri dorate, libero pensatore in incognito, filosofo free-lance che veicola messaggi di crescente complessità per il tramite – forse inessenziale? - di mutevoli accompagnamenti musicali in forma di canzoni. Abbandonata solo in parte la lucida perfidia che ne caratterizzò la scrittura fino a “Glamour”, Niccolò disseziona e rimescola la propria arte riponendo in soffitta argomenti (Roma e la sua degna gioventù, la salute mentale, le nevrosi, l’impietosa fustigazione delle umane certezze) e sonorità (al bando le chitarre, la distorsione, il ritmo battente), senza smarrire mai lo sguardo penetrante, quell’innata, disincantata ferocia dispensata in punta di lingua con la sottile violenza da white collar che lo ha sempre contraddistinto. I brani restano fruibili ed ascoltabili, ricchi dei molti ritornelli orecchiabili che occupavano le precedenti dimore di Niccolò: è opulento, “Aurora”, di quegli stessi chorus che ti inchiodavano in testa “Velleità” o “Lexotan”, “Asperger” o “Non c’è niente di twee”, anche se l’impressione è che tutto giunga più ovattato, più spoglio, solo in apparenza più esile, in realtà specchio di un accresciuto, totalizzante, confidenziale intimismo tragico, quasi l’intero album fosse una sorta di gigantesco spin-off, emanazione concettuale della “San Lorenzo” di “Glamour”. L’odierno Niccolò è soltanto più meditativo, è triste la sua riflessività, rassegnata a volte, ma comunque alta. Non lesina indizi de I Cani che furono, affioranti a tratti in liriche cesellate al limite della provocazione: “Protobodhisattva” lo fa a partire dal titolo e prosegue con un chorus che piace ai giovani mentre vibra fendenti con grazia luciferina, l’opener “Questo nostro grande amore” gioca a scambiare sentimento e affari in un testo geniale tipico del Contessa che si pensava anaffettivo, “Baby soldato” mostra impietosa vuoti a perdere, “Non finirà” si arrovella in elucubrazioni cosmiche affidandosi – con ironia affatto involontaria – al blando sostegno di un funky scipito, amo al quale abboccano i network radio-tv diffondendo on-air un messaggio il cui spessore travalica l’insipido groove che ne fa una hit di facciata. Niccolò stipa tutti i singoli nella prima metà dell’album, quasi a togliersi il pensiero dell’atto dovuto: ma già dalla scena hopperiana de “Il posto più freddo” inizia la lenta discesa (o ascesa) verso altre profondità, viaggio in un non-luogo che potrebbe essere l’infinitamente grande o l’infinitamente piccolo, un excursus dolente che conduce alla morbida melanconia della title-track, all’autoreferenzialità insofferente di “Calabi-yau”, alla profezia funerea di “Finirà” ed infine alla chiusa – testamento ideologico – di una “Sparire” che delinea in poche note sospese i margini dell’abisso. Abisso mentale o cimitero interstellare, tomba di sé o capolinea di una generica umanità denigrata con voce carezzevole e melodiosa, auspicio di requie o epifania dell’apocalisse prossima ventura, poco conta. Intanto fuori è scesa la sera, il viaggio prosegue lento ed inesorabile, il panorama continua a cambiare nella semioscurità: l’occhio che lo osserva, distaccato ma vigile, è sempre lo stesso. (Manuel Maverna)