COLONNELLI "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi"
(2016 )
“Ceci n’est pas une pipe”, scriveva René Magritte ne “Il tradimento delle immagini”, celebre olio su tela raffigurante – non a caso – proprio una pipa. “Questo non è metal”, vorrei personalmente puntualizzare io a proposito del devastante album di esordio dei Colonnelli, trio di origini grossetane attivo da alcuni anni all’insegna di una musica bruciante ed aggressiva, autentica onda d’urto che investe e travolge senza risparmio di colpi. Musica durissima e squadrata, parente stretta del metal per forma e sonorità, se ne discosta tuttavia in virtù di un approccio che sembra procedere per filiazione diretta dall’indie-rock più oltranzista, fino a lambire in alcuni episodi la violenza compressa dell’hardcore. E’ una musica che trasuda rabbia e disillusione quella che adeguatamente supporta testi - mai triti né prevedibili, pur nella loro foga iconoclasta - dal taglio esistenzialista (le ripercussioni delle brutture sociali sul malessere individuale), capaci di spaziare da toni crepuscolari e disfattisti a cieco livore anthemico. Minacciosi e plumbei, dispensano in undici tracce di lucida collera un incessante martellamento che valica i confini del metal di maniera ibridandolo con pulsioni dark e schegge grind, hard-blues da guerra e assalti à la Fear Factory, inni in nero trafitti dallo screamo di Leo Colonnelli, il cui stile vocale rappresenta, in questo contesto, un altro fondamentale elemento di distacco dai cliché. E’ una musica mai disarmonica che giostra attorno a cadenze e dinamiche, espressività frontale sovente pervasa da inattesi squarci melodiosi, sempre e comunque nel contesto di una tellurica architettura di sostegno: i brani si mantengono entro un timing contenuto, guadagnando in potenza e concisione senza disperdere la carica accumulata, quasi sempre sorretti da riff e dalla massiccia iterazione di figure ossessivamente ripetute. Si susseguono in un crogiuolo di inusitata barbarie pezzi non nevrotici, ma dotati di un intimo fervore che deflagra – ad esempio – nell’accelerazione speed de “Il boccone amaro”, nella sassata monocorde, quasi hc, di “Circo Massacro” o ancora nella concitata virulenza à la Motorhead di “Ero vestito di nero”. Motorhead che ritornano in “Masticacuore”, spaccaossa a doppio pedale che incenerisce offrendo un chorus intriso di melodia, come accade nelle aperture di “Magnitudo dieci”, nella semplicità di una “Apprendista suicida” che flirta – non isolata – con reminiscenze grunge, rammentando agli astanti con disarmante semplicità come l’estremismo possa non scadere in efferatezze da baraccone o in cervellotico sperimentalismo. Compatti e feroci, mai brutali nella loro furia debordante, i tre riescono addirittura a macinare l’hard zeppeliniano in salsa Metallica di “Vi cacceremo senza pietà”, l’ennesima mitragliata a testa bassa di “Proiettile”, ma soprattutto il capolavoro di “Combustione interna”, Verdena a braccetto col fantasma di Cobain, tre minuti di inferno che puoi – sic! – cantare a squarciagola in coda nel traffico o ascoltare dalle frequenze di qualche radio coraggiosa: e quando il signor Leonardo Colonnelli cala il sipario sulla rasoiata de “La marcia dei Colonnelli” gridando in un delirio parossistico “La peste/alle vostre famiglie”, non puoi non volergli bene mentre augura morte e sciagura al genere umano. Metal for the masses? Può darsi. In ogni caso questa è una band che merita affermazione oltre la provincia, oltre i generi, oltre le etichette. Inoltre, mi permetto di ricordarvi che questo non è metal: è molto, molto di più. (Manuel Maverna)