GATTUZAN  "DolceVita!"
   (2016 )

Ciò che più mi aggrada in questo mastodontico (32 pezzi per 77 minuti di musica, vivaddìo, ragazzi, nemmeno i Clash di “Sandinista!”) album di esordio degli umbri GattuZan è la sostanziale impossibilità di prevedere, almeno al primo ascolto, la direzione che il prossimo brano della tracklist prenderà. Con qualche pista di genialità in meno, nonché depurata del taglio schizoide, l’operazione ricorda vagamente la frammentaria follia - schegge e detriti - dei Pixies, uno tra i molti ingredienti impastati assieme ad altri cento in un frullatore infarcito di disparate influenze, caleidoscopico spettro di boutades talora intriganti, altrove inessenziali, comunque funzionali a sottrarre appigli lungo il cammino. Disco anarchico e sfacciatamente presuntuoso che sovente non si cura della bella calligrafia, “DolceVita!” si pasce e si corrobora di una concisione che mantiene desta l’attenzione grazie proprio all’incalzante susseguirsi di episodi di breve durata, spunti incompiuti che paiono accennare senza concludere, ogni traccia mutata in uno schizzo di massima, uno studio su carta riciclata, quasi mai un olio su tela: eppure l’assenza di linearità, uccisa in caotica mattanza, incolla al megaschermo in attesa di uno sviluppo, un intrigo, un epilogo che non giunge, quasi l’assenza di un finale fosse – ma è mera supposizione - lo scopo ultimo di un lavoro che ciò si prefigge. In un clima di plumbeo nonsense sparso a pioggia – humour iperbolico e caricaturale che mira al grottesco, mai alla scanzonata ilarità (il testo di “Gnaw” contiene un estratto del processo a Pacciani) – si materializza un hellzapoppin’ capace di lambire la psichedelia espansa dei Flaming Lips (“Manuela”) come il tribalismo baldanzoso dei Mano Negra (“Olengo”), alternando sketch da vaudeville a composizioni più squadrate (“Maria”, Bob Mould in salsa Jeremy Enigk), che assumono – travolgenti - le forme del coro sguaiato alla Libertines (“Let’s go buy graves”) o perfino delle tirate elettriche dei Gallagher (“The milkchicken of Samarcanda”), incuranti di qualsiasi distonia artistica. Sorprende come, anche sulla lunga distanza, il gioco regga, seppure risulti pressoché impossibile definire, classificare, comprendere appieno il senso di un album talmente ondivago da rasentare una inconsistenza paradossalmente multicolore: convivono echi di Primus (“Ymbalaya”) e ballate dylaniane (“Gober”), rimembranze sbracate dei Killers (“Wannabe down”), accenni di college-pop (“Mlq”), punkettacci da Green Day (“Answers”) e addirittura suggestioni baggy (“Alboro”), ma sullo sfondo si staglia una maestosa, innata padronanza nel gestire gli incastri, le linee armoniche, le dinamiche. La torre così eretta oscilla, traballa, ma la band riesce sempre e comunque a cavare dal cilindro un guizzo, un’idea, un trucco (mirabile “Ringo”), sia esso vocale, testuale, ritmico, linfa che innerva piccole canzoni slabbrate abili nel proporre indizi sorprendenti. E’ un gioco rischioso, il loro, e qui sta il busillis: la rinuncia ad uno stile potrebbe essere a sua volta uno stile, o soltanto l’espressione di spavalda incertezza sulla via da battere, un pastiche che sfuma il confine tra essenzialità e ridondanza ricorrendo ad una autoindulgenza talora eccessiva, ma non per questo meno florida. “DolceVita!” ricorda un buffet non impeccabile ove la quantità di finger-food a disposizione depisti sia dalla qualità del cibo, sia dalla mancanza di un piatto forte: alla fine te ne vai sazio, ma senza sapere esattamente cosa hai mangiato. Prendere o lasciare. (Manuel Maverna)