LYCIA  "A line that connects"
   (2015 )

Onusti non già dell’effimera gloria che la popolarità di massa regala alle sue icone, ma baciati dall’estro che ai grandi tocca in sorte, i Lycia, insegna che da un quarto di secolo il vessillifero Mike VanPortfleet, sciamano cortese, esibisce in un universo di sogno e tenebra, si ripresentano a due soli anni dal cavallo di ritorno “Quiet moments” con un lavoro che marca e ridefinisce – in chiave più elettrica - la già spiccata peculiarità del loro sound. In formazione a tre con David Galas e Tara Vanflower (entrambi presenti su “Empty space” del 2003), Mike disegna con sopraffina mestria scenari di impalpabile gentilezza, sospesi tra suggestioni dark ed eteree divagazioni crepuscolari, solo di rado cedendo ad una maggiore aggressività di stampo industrial: non incubo, bensì esorcizzante trance ipnotica, “A line that connects” è opera aggraziata mai intimamente lugubre, che ricama bozzetti di suadente, trasfigurata introspezione ad un passo dal cantilenare metafisico dei Cocteau Twins. Se la prima parte dell’album vaga catatonica indulgendo su cadenze rallentate ed atmosfere rarefatte, nella seconda le spirali evocative di VanPortfleet risuonano in una propulsione sì più sostenuta, ma avulsa da furia, inquietudine, urgenza espressiva: il fosco incipit di “The fall back” – i primi Cure - si dissolve nella ballata elegante di “Monday is here”, che su un’aria da Fields of The Nephilim si offre – rarità - ad un vero e proprio chorus melodioso, prima di venire inghiottita dal gorgheggio sfuggente di “Silver leaf” e di precipitare nella nenia esangue (This Mortal Coil e Codeine a braccetto) di “Blue”. La cesura rappresentata dalla esitante “An awakening”, bipartita tra un feedback garbato da Red House Painters e note distillate di pianoforte a contrappuntare i vocalizzi di Tara, funge da preludio all’epifania della wasteland che segue: se “The rain” – cantata da Galas - riapre i giochi su un quasi danzereccio synth-dark anni ’80 (tra gli Indochine di ieri e gli Editors di oggi), “Bright like stars” oscilla tra una cadenza martellante ed una saturazione stordente, schema ripreso più avanti nella psichedelia infida di “A ghost ascends” (che deflagra in una roboante detonazione), nell’accelerazione di “The light room”, e soprattutto nei quasi otto minuti di “Illuminate”, funereo ingorgo di apocalittica irruenza à la Swans. Fra echi di Matt Howden e David Tibet, l’ammaliante voce di Tara si insinua struggente nella dolcissima oasi di “Hiraeth”, prima che la ballata à la Mission di “Autumn moon” – ancora con la voce di Galas - ed il desolato testamento di “The only way through is out” avvolgano in pesanti drappeggi un disco eccelso, diviso tra un’anima celestiale ed una sotterranea, strisciante, visionaria pulsione mistica. Disco profondamente haunting capace di creare un climax di tensione lievitando con moto lentissimo, musica circolare che ignora le variazioni, giocata interamente sulle atmosfere e sulla ripetizione mesmerica di affascinanti figure reiterate all’infinito, “A line that connects” è un fremito che percorre un filo sottilissimo sospeso su una notte lunga, lieve, non così impenetrabile. (Manuel Maverna)