THREE IN ONE GENTLEMAN SUIT  "Notturno"
   (2015 )

Sulle scene dal 2003, ben cinque album ed una intensa attività live all’attivo, i Three In One Gentleman Suit, three imaginary boys da Finale Emilia, sono probabilmente tra le realtà meglio custodite dell’indie-rock nostrano. Sostenendo impavida una ineludibile tristesse di fondo, la band porta in dote molteplici istanze tra loro coerenti benché difficilmente riconducibili a classificazioni di genere, di rado accostabili a riferimenti più o meno espliciti. Latori di una oscura, depressa sensibilità che coniuga la fibrillante implosività dell’emocore e le strutture armoniche del post-rock più aperto e meno cerebrale – quasi i Sunny Day Real Estate eseguissero brani dei National -, il trio sfoggia peculiarità che lo distanziano dalle svariate influenze di cui si nutre senza tuttavia pagar loro dazio. In una penetrabile inclinazione alla melanconia, mai volta in furia e sempre gentile, le otto tracce che compongono “Notturno” offrono una rielaborazione attualizzata di certa dark-wave d’antan, richiamando alla memoria ed al cuore in primis i Cure di Robert Smith (atmosfere ed accenti nel canto, ma non altro), indi alla rinfusa il maestoso debutto dei Bloc Party (“Ashes” - con Nicola Manzan al violino -, una lineare ma pregevole “Deafening dawn”, l’aria sospesa di “Parallels”), forse gli Interpol, qua e là gli Editors: ma sono pillole sparse, perché ciò che distacca il trio da questa inclassificabile, trasversale area di cupezza esistenzialista è un uso della chitarra che edifica melodie sfuggenti, anziché limitarsi a contrappuntarle come accadeva in quelle tenebre. Musica con molti padri non del tutto identificabili e con ben pochi figli, quelli dei Three In One Gentleman Suit è una carezza suadente ed ostile, suono tagliente ed ammaliante che affascina e disorienta, dall’opener “Nightshift”, con inizio percussivo pulsante ed attendista deflagrante in un chorus inatteso, al drumming frenetico di “Black harp”, passando per l’accelerazione sghemba di “Jungle frenzy” e per la cadenza vagamente ossessiva di “Spiders” (deliziosa l’atmosfera creata dalla chitarra, Robert Fripp che incrocia Andy Summers), fino a culminare nell’armonia in crescendo della conclusiva “Medusa”: una melodia sospesa cede alfine il posto alla chitarra disturbata, composta ma abrasiva, di Stefano Pilia, che sale a devastare la parte finale del brano con una saturazione più psicologica che rumoristica in senso stretto, digressione à la Mogwai cui spetta il compito di suggellare un album di trattenuta, incombente emotività affogandone la malcelata morbidezza in un provvidenziale, liberatorio maelstrom elettrico. Ennesima dimostrazione di matura personalità, “Notturno” consolida l’unicità di una band capace di raccontarsi per il tramite di un linguaggio raffinato dispensato con ragionata eleganza in composizioni che accostano misurata veemenza ed una toccante, imprevedibile immediatezza. (Manuel Maverna)