ANDREA DI GIUSTINO  "Il senso dell'uguale"
   (2015 )

All’alba del 2015 è tornato Andrea Di Giustino con “Il Senso Dell’Uguale”, un viaggio intimista in cui l’autore si ferma a riflettere in maniera profonda su grandi temi legati all’esistenza di ogni individuo: dall’attesa all’amore, dal sogno alla morte. Andrea di Giustino lo fa com’è nel suo stile: anche in questo disco (terzo della carriera) il cantautore si muove su un pop elegante, che include preziosi passaggi che ammiccano al pop rock, e momenti più seriosi, in cui la componente musicale si fa più minimale, dalla forte vena cantautorale. L’artista abruzzese, pur non sperimentando e non utilizzando soluzioni particolarmente complesse, lavora su un genere che, solitamente, è semplicemente radiofonico e commerciale. Non è il caso di Andrea Di Giustino: oltre ad una sezione ritmica curata e orecchiabile, sono i testi a connotarsi per una profondità che non è facilmente rinvenibile in altri artisti che praticano il genere e che, magari, si ascoltano anche più frequentemente in radio e non solo. In tal senso, spiccano i due brani con cui “Il Senso Dell’Uguale” inizia e si conclude. Il primo è “L’Attesa”, una piacevole analisi sul senso del tempo e dell’attesa, un termine che – come spiega l’artista – al giorno d’oggi non riesce ad avere altra accezione oltre quella negativa. Il cantautore qui va oltre e riflette sul tema portando alla luce idee quasi senecane, con un livello di scrittura parecchio alto. Lo stesso dicasi per “Aprile”, in cui si canta la paura e il coraggio di trovare la forza dopo un terremoto che rappresenta un punto di non ritorno, con un riferimento specifico a quello disastroso verificatosi sei anni fa proprio in Abruzzo. “Morire Vivo” è, invece, il pezzo che sembra avere qualcosina in più rispetto agli altri nove: tutta l’allegria che il brano è capace di sprigionare è condensata in un ritmo dal levare simil-funky, ed un testo che richiama ancora Seneca ma anche il Pablo Neruda di “Lentamente Muore”, con una riflessione dedicata a chi vive, in un certo senso, da morto. Non è un invito meramente edonistico, è piuttosto un’analisi saggia sul tempo e sull’uso che se ne fa o se ne dovrebbe fare. Scorre fluido, comunque, per tutta la sua durata. I pezzi citati emergono in un contesto che comunque è già molto buono e non presenta un solo intoppo. Questo disco ha, in sé, i canoni del pop ideale: è un gran bel lavoro. (Piergiuseppe Lippolis)