VERDENA  "Endkadenz vol.1"
   (2015 )

Da pasionario di vecchia data, fan ottuso che, talora cieco, prescinde dal reale valore delle cose, rivolgo ai Verdena, sesto album in sedici anni di onorata carriera senza mai una flessione nè un cedimento strutturale, il mio ennesimo plauso aprioristico. Rinsaldo la dipendenza mentre mi inietto per la millesima replica l’infido rallentamento elettrico di “Inno del perdersi”, canzone che varrebbe l’osanna se anche il resto dell’album fosse vuoto; recito il Gloria sul trittico iniziale, puro stato di grazia illuminata che predica senza fatica nuovi classici privi di rischi, mando a memoria il riff nascosto nella cadenza assassina di “Ho una fissa” col suo denso ingorgo, assimilo le synthetiche tentazioni White Rabbits di “Puzzle”, naufragando infine in quell’irresistibile passo danzereccio – meraviglia retrò di essenziale rock anni Settanta - di “Un po’ esageri”, prima traccia ad essere pubblicata come singolo, degna di menzione d’onore e – perché no? – di reiterati passaggi radiofonici che la diano in pasto al popolo. Al popolo – ebbene sì – perché mai come oggi i Verdena sembrano alfine aver optato per il valico della sottile linea Maginot tra indie e mainstream, concedendosi al versante meno cervellotico e più accessibile di quel rollercoaster che la loro musica da sempre è: lontano anni luce dalle tetre asperità di “Requiem”, così come dal turbine di idee in movimento mirabilmente fuse nel crogiuolo di “Wow”, “Endkadenz” sceglie – placato sì, arrendevole mai - di stemperare tensione e dissipare spocchia, dispensando in letizia schegge di melodiosa orecchiabilità. Certo, l’abiura degli inveterati (abusati?) trucchi in repertorio è prematura: i testi si affidano come di consueto a quell’ermetismo esistenzialista che dice senza spiegare, beandosi della propria illeggibile impenetrabilità. Alberto trascina vocali e spezza cesure, sottraendo sì punti di riferimento ma lasciando questa volta non poche briciole lungo il sentiero. Fiorisce e si consolida l’impiego di elementi elettronici (“Sci desertico”, con un inciso memorabile), sebbene non sempre la messa a fuoco di questi ultimi sia impeccabile: figlia di improvvido – benché apprezzabile - tentativo, “Derek” vacilla caotica in un pasticciaccio brutto, mentre la conclusiva “Funeralus”, brano dallo sviluppo indeciso, si spegne incerta su una coda piuttosto avulsa dal contesto. Ma poco importa, ed anche “Endkadenz”, come i suoi illustri predecessori, è comunque un buon disco (forse non un grande disco, per riprendere – mutatis mutandis - una chiosa di Stefano Solventi a proposito di “Wow”). che rimane tale sebbene alcune sue aperture sembrino addirittura troppo semplici per i Verdena; lo rimane anche se scosse e sorprese – quelle vere, quelle spiazzanti – stentano ad arrivare, lo rimane pure nella sua trasparente, quasi disarmata resa alla normalità, come nel pop scoperto di “Nevischio” (immaginatela – sic! - tra le labbra di Niccolò Fabi) o nella prima parte di “Rilievo” (il cui incipit rasenta – sic! – i Roxy Music), o ancora nella ballata pianistica di “Diluvio” (“Resti in me/come una cicatrice/che un brivido è già”, verso che avreste mai pensato – sic! - potesse uscire dalla penna di Alberto), o infine nell’inoffensivo, confortante trittico “Vivere di conseguenza”, “Alieni fra di noi” e “Contro la ragione”, milieu battistiano appena sporcato da stacchi depistanti, tra variazioni secche à la “Loniterp” e qualche sotterfugio ritmico sparso ad arte. Lavoro che non arretra, ma nemmeno avanza di un centimetro, questa prima parte di “Endkadenz” lascia in sospeso più di una promessa, in attesa di quel vol.2 che riserverà, magari, tutti i brividi qui negati a chi speranzoso ha insistito a scavare alla ricerca del tesoro nascosto; allo stato attuale, mi verrebbe da dire che in noi di cari inganni/non che la speme/il desiderio è spento: ma attendo comunque, con immutato amore. (Manuel Maverna)