FOUR TRAMPS  "Tramps & thieves"
   (2015 )

All’insegna di un evidente disimpegno affatto inespresso, provvidenziale negli esiti e ben funzionale ad essi, il pirotecnico divertissement “Tramps and thieves” marca l’album di esordio dei reggiani Four Tramps sulle ali di un blues mutante dalle molte ascendenze, certo non privo di pecche, ma comunque intrigante sotto svariati aspetti, non ultima una vivace abilità compositiva evidenziata in tracce di talora impronosticabile sviluppo. Se è dunque innegabile che la pronuncia dell’Inglese andrebbe affinata, e che un migliore equilibrio dei suoni garantirebbe probabilmente una resa superiore, va però detto come l’inattesa imprevedibilità nel giocare con la materia grezza plasmandola in fogge del tutto inusuali, offrendo del blues primigenio una personale rivisitazione e rilettura in chiave decisamente attraente (“22 Crickett”, cavalcata mid-tempo con saggio filtro posto sulla voce nella strofa), rappresenti un buon viatico per un percorso che potrebbe regalare sorprendenti sviluppi. Nonostante lo stile di canto non brilli sempre per sfoggio di personalità (il bel tema in minore di “Revolution tonight” viene attutito dalla freddezza espressiva), limitandosi piuttosto ad interpretare con intonazione fin troppo calcata testi tutt’altro che petrarcheschi - ma è blues, ladies & gentlemen, non esattamente territorio di elezione di poeti e fini dicitori -, la band stupisce per la naturalezza con la quale riesce a sopravvivere pur scegliendo sovente percorsi fuori pista: accade nella sospesa aria notturna di “Moonshiner in love”, soffice armonia che deflagra in un bel controtempo jazzato sorretto da un drumming à la Stewart Copeland, ma anche nella furiosa accelerazione di “Last day of freedom”, nel country esitante e sbilenco di “Tremblin’ land blues”, che risolve il chorus in un solo stoner, o ancora negli accenti doorsiani della title-track, con un finale anni ’50 che devia completamente dal tema iniziale. Tutto l’opposto di quanto il menu sembrerebbe suggerire, un ventaglio di sapori che nobilitano una cucina non eccezionale grazie ad accostamenti imprevisti: la slide che incornicia e definisce l’aura tex-mex di “The girl of abnormal dreams”, contrappuntata da un inciso quasi psichedelico, o la deragliante bordata à la John Lee Hooker di “Mr Jameson”, così come le suggestioni springsteeniane indotte dall’armonica di “Buster blues” fungono da preludio ai due episodi più significativi, paradossalmente proprio quelli in cui riemerge il blues più essenziale e squadrato. Sono i sette minuti di “Me & the devil #2” - slackness sbavata, basso finalmente arrotondato e chitarrismo à la Johnny Winter dalle prepotenti dinamiche – ed il passo da garage crampsiano della conclusiva “Summertime blues”, a suggellare un lavoro dalle molte contraddizioni, ma non privo di spunti di sicuro interesse: per raggiungere la pienezza del sound di band come Jesus Franco & The Drogas o Inside The Hole la strada è ancora lunga, ma le premesse certo non latitano, specie se i quattro riusciranno ad affrancarsi da quel manierismo interpretativo che al momento li imbriglia nelle maglie di una comprensibile sudditanza ai molti modelli assimilati. Band senza fronzoli che mostra di sapersi divertire, curiosamente intelligente, baldanzosamente acerba, a suo modo promettente. (Manuel Maverna)