FAST ANIMALS AND SLOW KIDS  "Alaska"
   (2014 )

I Fast Animals and Slow Kids, quartetto formatosi a Perugia nel 2007 e giunto di recente alla pubblicazione del suo terzo album, rappresentano nel variegato panorama del rock indipendente nostrano una creatura piuttosto insolita, passata dalle acerbe pulsioni degli esordi giovanili alla evoluta (im)maturità odierna. Fondato su una irruente ibridazione che assembla con ammirevole coerenza elementi mutuati dal sottobosco indie, il suono saturo e debordante della band poggia su capisaldi immediatamente individuabili. In primis, grazie soprattutto ai pregevoli incastri in minore tra le due chitarre, una prepotente deriva emo-core, più impetuosa ma meno introspettiva rispetto – ad esempio – agli inarrivabili Fine Before You Came; a seguire, una foga tipicamente hardcore (precipitosa, ma non belluina) sostanziata nelle accelerazioni di alcune tracce (“Odio suonare” su tutte) e nel canto di Aimone Romizi, il cui peculiare stile vocale improntato allo screamo modifica pronuncia e cesure quasi sfigurando la pregna armonia dei brani. Infine, un espressionismo ostentato che oscilla continuamente tra il Manuel Agnelli più istrionico (quello che apre e calca le vocali, quasi a voler sbeffeggiare o scimmiottare il canto enfatico proprio di certo metal) e gli Zen Circus più espliciti (“Come reagire al presente” suona come una out-take di “Nati per subire”: non è casuale la passata collaborazione con la band pisana e con Andrea Appino in particolare). Se l’adozione di un registro canoro come quello sopra descritto è rea di conferire alle tracce una indistinta uniformità, forse non del tutto desiderata nè funzionale alla loro complessiva fruibilità (perfino la deliziosa melodia pianistica de “Il vincente”, supportata dagli archi e punteggiata da echi noisy, è proposta in una veste a dir poco oltranzista), è innegabile che “Alaska” sappia conservare intatta una struggente veemenza, elevando l’urgenza espressiva ad elemento distintivo dell’intero lavoro. Urgenza che trionfa sì, ma che forse a comun danno impera: spogliato della sua cieca, istantanea emotività edificata su brandelli di vita in presa diretta, “Alaska” rischia di svelare una improvvida inconsistenza di fondo, come una bolla di sapone dai riflessi cangianti o l’acqua cristallina di un torrente di montagna che abbevera senza dissetare. Benchè innervato da una sincera frenesia, rimane disco di difficile interpretazione che accosta istanze antitetiche, lieve senza esserlo, bello senza volerlo; album che forse non è davvero nulla di quanto suggerito, non rabbia nè violenza, forse neppure disillusione o inquietudine, rimorso o disinganno, opera che non ambisce a sublimare quelle passioni che ha già ucciso prima di vederle nascere, “Alaska” finisce per infilarsi nel cul de sac che ha scelto di essere. E’ un vicolo cieco, come i 5 minuti conclusivi di “Gran final” che collassano in un nulla indistinto tra scatti repentini, cori anthemici, muri di feedback e nostalgia di qualcosa; è un urlo lanciato alle stelle sulla scia di una fugace emozione, come non importasse cosa si dice, bensì il solo dirlo, unica ragion d’essere del qui e ora; è un grido che dura il tempo di un’eco, prima che di nuovo torni a risuonare nella mente il testamento de “Il mare davanti”: Non c’è più speranza, c’è la notte, c’è il silenzio. (Manuel Maverna)