TOM MOTO  "Allob Allen"
   (2014 )

Musica per organi freddi, figlia imbastardita di tempi incerti e dissonanti, bolla di contrasti e sincretismo, contrapposizioni e miscele sperimentali, proposta colta ed impegnata, quella del secondo album dell'insolito trio pisano dei Tom Moto è musica che dista anni luce dall'intrattenimento leggero; jam infinita nella gestazione, arte per l'arte, gioco concettuale a tratti deragliante, elaborato scherzo che rastrella spunti di intellighenzia di varia estrazione, stille d'avanguardia mutuate dal jazz, dalla contemporanea, dal neoclassicismo, "Allob Allen" assembla sei lunghe, estenuanti tracce strumentali che richiamano Primus e Sons of Kemet, In Zaire e Stravinskij, in mutanti movimenti mentali sì autocelebrativi, ma capaci di offrire preziosi momenti di inconsueta, stravagante alterità (il coro di voci femminili in "XXL" potrebbe provenire da uno dei molti mondi mistici dei Dead Can Dance, ed è solo un esempio fra i tanti possibili). Lontanissimi - almeno nella sostanza - dal prog, che dilatandosi costruisce armonie e scenari anche grazie all'impiego di una ampia strumentazione, il trio giunge semmai a travalicare i confini già fluidi del prog affidando l'impervio compito a basso, batteria e tromba elettrica, unici - o quasi - interpreti di un esteso soundtrack immaginario, sinistro accompagnamento di un film inesistente, soggetto solo abbozzato ancora privo di sceneggiatura. Operazione intrigante, non così fine a sé stessa come l'intento parrebbe suggerire, ipotesi di partenza per un futuribile sviluppo laterale di disarmonia sghemba, l'album reimpasta ritmi sbilenchi, anfratti catatonici, suoni acidi e stridenti, per produrre un effetto tanto stordente quanto obliquamente ammaliante, un po' l'equivalente ideologico (in salsa jazz anzichè classicheggiante) del recente capolavoro targato These New Puritans: musica che sembra dapprima respingere, ma che finisce quasi inevitabilmente per attrarre a sé, se le si concede la possibilità di insinuarsi tra le difese del sentire comune. (Manuel Maverna)