GIRLS IN HAWAII  "From here to there"
   (2003 )

I belgi Girls in Hawaii rappresentano un insolito, raro caso di band che, pur optando per l’idioma albionico, compone scrivendo “alla francese”. Il loro è un pop gentile intriso di una palpabile melanconia che ne costituisce tratto essenziale ed ineludibile, una musica esilmente carezzevole dotata di una struttura estremamente regolare e scarna, spesso affidata a pochi accordi ripetuti per l’intera durata del brano e vivacizzati non già da variazioni ritmiche o del tema portante, bensì dalla ricchezza e dalla varietà di intriganti contrappunti (pregevoli quelli di xilofono). In “From here to there”, fortunato debutto sulla lunga distanza, emergono affinità – legate per lo più alle atmosfere tristemente decadenti - con i Blonde Redhead, dei quali tuttavia mancano ai Girls in Hawaii la cerebrale ricercatezza e l’insistita ricerca di espedienti capaci di conservare una apparente fruibilità dei pezzi pur entro scenari contorti; emblematica del sestetto belga è invece proprio una levigata semplicità di fondo, tradotta nelle forme di esangui ballate in minore sussurrate con garbo e dolente spleen dalle voci sottotraccia di Antoine Wielemans e Lionel Vancauwenberghe, il cui tenue esistenzialismo è mirabilmente supportato da trame tanto essenziali quanto fascinosamente coinvolgenti. In un contesto scevro di innovatività o futile sperimentalismo, sfilano dodici melodiose composizioni sottilmente depresse proposte con uno stile dimesso che ne incarna la principale, distintiva peculiarità e che contribuisce ad accrescerne l’allure nonostante i molti riferimenti sparsi fra le tracce e pur scontando una evidente – benchè indefinita - derivatività complessiva dell’insieme. Si tratti di una ballata in stile Cure (la splendida “9:00 AM” che apre l’album) o di un accenno di surf à la Beach Boys (“Short song for a short mind”), di un godibile, improbabile connubio tra Louise Attaque e Jayhawks (“Casper”), di echi Strokes (“Time to forgive the winter” ricorda “Reptilia”) o ancora di qualche suggestione nirvaniana (“The fog”), grazia ed ispirazione non abbandonano mai questi brani innervati di una dolcezza sì spiccata, ma palesemente incupita da atmosfere ingannevolmente rassicuranti. I quattro brani conclusivi innalzano l’album a livelli eccelsi: dalla fremente esitazione - con successiva deflagrazione - di “Flavor”, tensione trattenuta ed improvvisamente rilasciata, al pop soffuso che ingentilisce la melodia beatlesiana di “Organeum”, dall’arpeggio smithsiano di “Bees & butterflies”, che lambisce vertici di toccante melodrammaticità, al passo laid-back in zona-Blur della sorniona “Catwalk” (con flauto e xilofono), i sei prescindono da cervellotiche divagazioni dando luminoso sfoggio a quella ombrosa, inquieta, languida abilità creativa che troverà sublimazione nei due successivi lavori. Deliziosi. (Manuel Maverna)