EDOARDO BENNATO "Sono solo canzonette"
(1980 )
Certi dischi non invecchiano, rimangono vitali nel loro splendore dispensando un’aura di mistica perfezione senza subire la maledizione del tempo impietoso, quasi l’ineluttabile senescenza riservata alle cose fosse a loro estranea. Certi dischi sono patrimonio culturale di un Paese, fanno parte dei ricordi, dell’immaginario collettivo, delle nostre vite e di quelle altrui; certi dischi sono colonne sonore del tempo che fu, trasfigurati e sublimati, riascoltati decine e decine di volte e mandati a memoria, volenti o nolenti, ascoltatori passivi o lettori attenti di una musica che è scrittura prima ancora che canto. Questo disco è più di un insieme di canzoni: è un musical, un’operetta, un concept-album (come si diceva un tempo), un film, una storia; nessuna delle canzoni che lo compongono è fine a se stessa, ciascuna riprendendo e sviluppando un’idea, un’immagine, dilatando allegorie e metafore oltre le capacità della penna, svolgendo con maestria sopraffina un tema che si spinge in direzioni imprevedibili seguendo l’estro del momento. Fucina di invenzioni, “Sono solo canzonette” è opera organica e complessa guidata da un’ammirevole ispirazione in ogni virgola e sussurro ed in ogni inusuale intonazione di Edoardo, cantastorie e dissacratore; in una prospettiva sì popolare, ma ottenuta muovendo da un approccio sontuosamente intellettuale, prendono forma personaggi che Bennato trasfigura elevandoli a modelli sociali in una recita concepita per fustigare costumi, menando fendenti col sorriso ingannevole di un joker. Rivisitazione più che libera della vicenda di Peter Pan, “Sono solo canzonette” sposta l’accento sull’inveterato conflitto tra la fantasia (intesa come libertà di opinione e di espressione) e la repressione massificante delle istanze libertarie operata dal sistema tramite l’ottusa intransigenza dei censori che ne sono personificazione, inanellando una serie impressionante di classici ancora oggi considerati – a pieno titolo e buon diritto – capisaldi del cantautorato italico dell’ultimo mezzo secolo. Ogni guizzo concettuale è accoppiato ad una qualche inattesa trovata che rende l’insieme sia godibile musicalmente che intrigante nei contenuti: è il caso dell’opener “Ma che sarà”, specie di tammuriata per percussioni, kazoo e fiati che lievita a strati sviluppando due diverse linee melodiche in un crescendo vorticoso, prima di cedere il passo al divertissement della celeberrima “Il rock di capitan Uncino”, brano storico a cavallo tra ironia e satira mascherata con tanto di piratesco coro baritonale. Bennato dimostra che di tutto si può ridere, anche dei pirati, spogliati della loro cattiveria e ridotti a macchiette caricaturali: nella straordinaria “Dopo il liceo che potevo far”, ad un ritmo da swing anni ’30 alla Natalino Otto, è Spugna – il fedelissimo di Uncino – a raccontare la propria storia tragicomica in un impastato sgolarsi ubriaco fino all’eloquente epilogo qualunquista “e non m’importa dov’è il potere/finchè continuano a darmi da bere/non lo tradisco e fino all’inferno lo seguirò”, ma l’accostamento azzardato di standard tradizionali, massicce suggestioni classicheggianti (“Tutti insieme lo denunciam” è un’aria da operetta cantata da un tenore e da una soprano, una sorta di bizzarra pièce che riecheggia l’aria di “Dotti medici e sapienti” nella quale i due cantanti interpretano due genitori che osteggiano le idee inculcate da Peter Pan nella testa del figlio) e sketch da vaudeville prosegue in ogni traccia miscelando commedia e tragedia senza distinzione, sfumando il labile confine tra invettiva, raggiro e serietà. In “Rockoccodrillo” la parola è affidata addirittura al coccodrillo che ha staccato la mano a Uncino, con tanto di fanciullesco call-and-response corale a passo di boogie rallentato: in pratica un cartone animato, ma con un testo affilato come un rasoio a dispensare ferocia critica bastonando usi e benpensanti. Il canto di Edoardo è sempre fuori misura, sopra le righe, teatrale; la sua intonazione assume di volta in volta dolcezza (perfetta per rivestire la deliziosa melodia de “Nel covo dei pirati”, poetica e toccante, dedicata sì alla Wendy della favola, ma anche – latu sensu - a tutte le ragazzine adolescenti), sbruffonaggine, sguaiatezza, ma sa regalare – seppure sempre con studiata enfasi – episodi scolpiti nell’onorabile lista degli evergreen italici, su tutte il celebre arpeggio che ricama “L’isola che non c’è” e soprattutto l’up-tempo irresistibile della title-track, con quell’urletto che un italiano su due non può negare di conoscere. Opera strabiliante ed ancora attuale nella sua versatile universalità, a tal punto intrisa di metasignificati da riservare ad ogni ascolto qualche nuova, piccola, elegante sorpresa, regalando sfumature impreviste tenute nascoste come gemme lucenti, conservate sul fondo del mare nel forziere perduto di un vascello pirata. (Manuel Maverna)