RYAN BINGHAM & THE DEAD HORSES  "Junky star"
   (2010 )

Talentuoso il bel moretto lo è di certo, e a quanto pare ascoltando questo terzo capitolo della sua discografia è pure coraggioso. Ad un solo anno di distanza dal precedente “Roadhouse sun”, egregia opera nel quale un promettente bardo texano dispensava a piene mani solide ballate elettroacustiche nel solco della tradizione, il golden-boy del folk-rock a stelle e strisce pubblica – sempre per la celeberrima etichetta Lost Highway - un album luminosamente e follemente suicida, affidando il sound non più al brio di Marc Ford, ma addirittura alla produzione elitaria di T-Bone Burnett, re Mida del settore e guru del genere musicale in questione. Non deve essere stato facile per il giovanotto affrancarsi dal rischio concreto di trasformarsi in un altro Lady Antebellum, specie dopo il boom clamoroso della hit “The weary kind”, recentemente insignita del premio Oscar per la migliore canzone originale, come non deve essere stato semplice per T-Bone Burnett trovarsi per le mani una pietra preziosa della caratura di Bingham e venderla al mercatino di quartiere anzichè a Bulgari. Sbalorditiva anche la decisa, palese scelta di campo del ragazzo, che de facto rinuncia ad imporsi sul mercato quando aveva tra i piedi il calcio di rigore della vittoria a porta vuota: gli sarebbe bastato infilare un paio di canzonette da high rotation buone per le fm americane ed avrebbe visto spalancarsi le porte della fama con certezza quasi assoluta. Ed invece questa pregevole ugola di carta vetrata preferisce – roba da matti – rischiare con meditata consapevolezza vergando un pugno di canzoni che di radiofonico non hanno assolutamente nulla, creando di sicuro un certo imbarazzo tra coloro che avrebbero dovuto e voluto spingerlo al piano superiore dello showbiz: a parte il bluesaccio sudista di “Depression” (uno dei pochissimi episodi che viaggiano ad un ritmo sostenuto, sebbene sul ritornello un controtempo quasi fastidioso ne stemperi l’euforia) e la velocizzazione tra country e blues di “Direction of the wind” (che invece manca di un ritornello contagioso, come tutto il disco, ma che riecheggia non poco la "Subterranean homesick blues" del Menestrello), il resto dell’album offre una serie di ballate che divengono sontuosamente apprezzabili solo dopo ripetuti ascolti, a mostrare e dimostrare le doti di songwriter di Bingham. L’impressione di ascoltare un novello Dylan che se ne infischia delle mode e del costume imperante è fortissima, anche se poi – a conti fatti e ragion veduta – l’impostazione vocale è completamente differente (Dylan snocciola in tono freddo litanie cerebrali, Bingham biascica roco bislacchi racconti di drop-out) ed il taglio dei testi nemmeno paragonabile, ma la stoffa c’è. E poi c’è quell’armonica traballante che spezza, sostiene, accarezza (mirabile il lavoro nell’iniziale solipsismo acustico di “The poet” - non ricorda un po' il passo della springsteeniana "I'm on fire"? - e nella successiva, cadenzata e a suo modo irresistibile “The wandering” come nella dolce e spoglia "Yesterday's blues"), il blues da palude di “Strange feelin’ in the air”, il lento shuffle fumoso della title-track, la tremante malinconia in minore di “Hard worn trail”, i sei minuti divini di “All chocked up again” e mille altre pagine già scritte da altri chissà quante volte, ma non c’è una – e dico una sola – canzone da classifica. Giusto per un’operazione di marketing in extremis, T-Bone Burnett aggiunge come bonus-track “The weary kind”, la cui inclusione suona come un tentativo poco convinto di guadagnare almeno i soldi per il viaggio di ritorno; ma in fondo mi pare di vederlo – il grande produttore - scuotere il testone ed allargare impotente le braccia con un mezzo sorriso di compiacimento, mentre il ragazzo continua imperterrito a strascicare il suo accento ubriaco, coi fidati Dead Horses a macinare roots-rock, raccontando storie comuni ed irridendo palesemente le charts e chi ha tentato sin qui di spedircelo controvoglia. (Manuel Maverna)