FINE BEFORE YOU CAME "Ormai"
(2012 )
Dei Fine Before You Came, quintetto milanese attivo fin dal lontano 1999 con svariati album all’attivo, mi piace quasi tutto. Mi piacciono il coraggio e l’onestà artistica, professionale ed intellettuale con la quale hanno scelto di consentire il download gratuito degli ultimi due lavori dalla rete; mi piace la sfrontatezza profusa in un emo-core tanto intenso quanto sinceramente capace di palesare le proprie ascendenze, un continuo ingorgo di chitarre in tonalità minori votate ad intasare canzoni stracolme, dove ogni singolo elemento è stipato come un’acciuga in un barile. Mi piacciono i testi (inizialmente in inglese, negli ultimi tre album in italiano), sempre brevi, ermetici – eppure universali - ed intimi fino all’incomprensibilità, e mi piace l’idea di nasconderli tra le pieghe di un chitarrismo triste e saturo, concentrandoli magari all’inizio dei brani, lasciando le parole libere di ripetersi, risuonare, vagare tra spigoli ed angoli rimbalzando in una stanza chiusa; mi piace la scelta di occultare queste liriche oscure e personali sotto una coltre di elettricità che le rende a tratti quasi inudibili ed inintelligibili, come messaggi in bottiglia che forse nessuno leggerà. Mi piace l’andamento della ritmica, fratturata ma non nevrotica, perfetta per supportare l’espressionismo sopra le righe del canto di Jacopo Lietti. Mi piace meno, invece, la scelta di Jacopo di ridurre a scream il suo canto-parlato (vi rinuncerà nel successivo, splendido ep “Come fare a non tornare”), sebbene ciò lo renda del tutto peculiare e distintivo, immediatamente distinguibile; in un registro vocale stentoreo ma distante, mixato come fosse in lontananza, un registro che ricorda talora quello di Miro Sassolini nei primissimi Diaframma (direi addirittura quelli ante-Siberia), la band dipana su un sottofondo dalle molte impercettibili sfumature storie minime di gente comune, vicende sottilmente depresse come si conviene al genere, racconti vibranti impregnati di un rassegnato fatalismo introverso, ripiegato su sé stesso in un magma sonoro tanto affascinante quanto stordente. Nonostante il chitarrismo stratificato che pervade le sette tracce dell’album, e nonostante lo stile canoro di Jacopo, non vi è mai un accenno neanche minimo di violenza, non vi sono esplosioni repentine, nè scatti improvvisi: a prevalere è invece, curiosamente, uno straniante senso di dolcezza, una rumorosa malinconia nella quale crogiolarsi, trasportati da racconti che potrebbero benissimo riguardare te, qualche scorcio della tua vita, una persona che hai amato, un luogo da ricordare, un’emozione da poco. (Manuel Maverna)