THESE NEW PURITANS  "Fields of reeds"
   (2013 )

Inglesi originari dell’Essex, dopo la defezione della tastierista Sophie Sleigh-Johnson nel 2012 i These New Puritans sono oggi un trio di multistrumentisti, il cui percorso di crescita ha subito negli otto anni di carriera alcune imprevedibili, brusche virate, portandoli dall’obliquo indie-rock dell’album di esordio all’attuale, indescrivibile forma d’arte che li contraddistingue. Passati attraverso varie fasi di ripulitura e sublimazione di un approccio tendenzialmente colto e cerebrale alla musica contemporanea, il trio è addivenuto ad una forma espressiva ardua da incasellare in uno specifico genere ed ancora più difficilmente ascrivibile ad una scena, moda o tendenza: se già nel precedente “Hidden” (2010) la band era giunta ad una inusuale sintesi stilistica capace di mediare elettronica e neoclassicismo, echi ambient e suggestioni jazz, in questo mirabile “Field of reeds” i tre alzano il tiro e pervengono ad una forma d’arte tanto rarefatta quanto incantevole nel suo fluire ondivago. Affine per concezione alla trance estatica ed ipnotica che rese seminale “Hex” dei Bark Psychosis - non a caso Graham Sutton co-produce l’album - e che fece di “Spirit of Eden” un caposaldo nella produzione dei Talk Talk di Mark Hollis, “Field of reeds” mira sia all’estremizzazione del linguaggio adottato per “Hidden” sia alla rarefazione di atmosfere che si fanno sempre più sofisticate ed eteree, grazie al perfezionamento di sonorità volutamente elitarie e concettuali. E’ una musica complessa e dilatata, variegata e multiforme, che pone le basi per una diversa forma d’arte, memore sia delle elucubrazioni più intense del David Sylvian solista (periodo “Gone to earth”), sia di talune dotte divagazioni di Joanna Newsom, sia ancora delle istanze avanguardistiche di Philip Glass o di Brian Eno: non si tratta tuttavia di puro sperimentalismo fine a sé stesso, ed è proprio in questa tenue concessione ad un contorto romanticismo sui generis che l’album diverge – ad esempio – dalle forzature dei Radiohead più estremi come dall’astrattismo di nicchia, per divenire invece un suadente, incalzante susseguirsi di atmosfere sospese ben amplificate dalla vocalità essenziale di Jack Barnett, ottimo complemento alle elaborate trame disegnate. Dominatori incontrastati, il pianoforte e la tromba (meravigliosa in “Nothing else” e vera essenza dell’album) marcano con ammaliante dolcezza e debordante personalità l’intero alveo del disco, a partire dalle figure chopiniane dell’opener “This guy’s in love with you” (dove una voce campionata crea una disarmonia sullo sfondo di un’aria per corni, preludio ad un crescendo orchestrale), per proseguire con l’esitante tempo dispari di “Fragment two” (con palpitanti inserti d’archi), e soprattutto con la sbilenca, trasognata elegia che si consuma nei nove minuti di “V (island song)”, piccola suite nella quale un’armonia circolare, alternata ad incisi inaspettatamente mainstream, ricorre su tonalità differenti in un loop straniante e mellifluo. Il rischio insito in una operazione di cotanto spessore è quello dell’autoindulgenza al limite del tedio, come mostrano gli episodi più smaccatamente forzati ed autoreferenziali (“The light in your name” e “Spiral”, attraversate da progressioni mutuate sia dal jazz – canto compreso – che dalla musica classica più oltranzista, Stravinsky in testa): quisquilie, tuttavia, al cospetto della genialità compositiva profusa in ogni battuta, cesellata al limite del maniacale perfezionismo e stipata di intuizioni sempre innalzate a vette creative eccelse. Disco a tratti impervio, che richiede reiterati ascolti prima di insinuarsi nei recessi più profondi della mente, “Field of reeds” svela la propria celata bellezza solo a patto di ricevere la dovuta - a tratti soverchia - attenzione; opera spiazzante priva di punti di riferimento, compendio di tecnica strumentale al servizio di una scrittura mai lineare, ma non per questo priva di illuminata grazia, è lavoro il cui appeal risiede nell’insistito ed ostentato rifuggire dalla normalità per giungere a lidi inesplorati, al confine tra le molte anime di una musica contemporanea in lenta e continua trasformazione. (Manuel Maverna)