SYSTEM OF A DOWN  "Toxicity"
   (2001 )

I System of a Down sono un quartetto di origini armene trapiantato a Los Angeles, che a partire dalla fine degli anni ’90 ha apportato una piccola rivoluzione nel modo di concepire e proporre il metal a livello mondiale, peraltro riuscendo nell’impresa di vendere svariati milioni di dischi sdoganando un genere musicale pur sempre borderline. La band di Serj Tankian e Daron Malakian – voce il primo e chitarra il secondo, oltre che menti pensanti del gruppo – riesce in un esperimento alquanto temerario come quello di fondere il battito del nu-metal (qui sapientemente declinato attraverso riff “grossi” adeguatamente distorti) con l’andamento psicotico del post-punk e l’approccio frontale dell’hardcore, dando vita ad un violentissimo ibrido di notevole spessore intellettuale. I brani riescono sorprendentemente a concentrare nei tre minuti della loro durata media tutta una serie di espedienti e trucchetti che li costringono a deviare incessantemente dall’esile linea-guida di base, in un processo di continua trasformazione; non c’è un solo istante di tregua, con una pletora di idee frullate a velocità ubriacante in un gigantesco pandemonio, a produrre un effetto disorientante senza concedere soste nè punti di riferimento. In quattro battute può accadere qualsiasi cosa, anche grazie alle magistrali doti vocali di Tankian che passa indifferentemente dal growl (“Needles”) alla lirica leggera nello spazio di un ritornello: la ritmica è serratissima, continuamente fratturata e ricomposta, la chitarra alterna contrappunti nevrotici da Pixies (dei quali non possiedono tuttavia la pungente carica grottesca e caricaturale) a mitragliate da Metallica, le melodie che si dispiegano in un oceano di rumore sono tanto più deliziose quanto più giungono inattese ad alleggerire atmosfere oscillanti tra sinistra follia (“X”, “Forest”) e machismo simulato (“Jet pilot”, “Psycho”). Per assurdo, i brani ondeggiano a tal punto da renderne difficoltosa l’assimilazione, come accade nel devastante trittico iniziale: “Prison song”, “Needles” e “Deer dance” (quest’ultima ad un passo dai Butthole Surfers) sono tre schegge nelle quali traspare e riluce in tutta la sua fulgida pazzia la superba arte del gruppo, capace di intrecciare più linee portanti e più stili differenti in canzoni che sembrano minuscoli puzzle. I quattro riescono a mantenere alta la tensione anche quando pennellano ballate (o meglio: pezzi somiglianti a ballate) più melodiche, come nel caso della title-track o della conclusiva “Aerials”, e soprattutto quando giocano a mascherare tracce da classifica con innegabile genialità: “Atwa”, “Science” e l’arcinota “Chop suey!” – che è un capolavoro - suonano al contempo paradossalmente orecchiabili ed inafferrabili, eteree e sataniche, in bilico tra sperimentazione e destabilizzazione in una forma di arte musicale davvero singolare e spiazzante. (Manuel Maverna)