HELMET "Aftertaste"
(1997 )
Se avesse scelto di intraprendere una carriera differente, avrei visto bene Page Hamilton nei panni di un efferato assassino, celato dietro le sembianze compite di un novello Patrick Bateman. “Aftertaste” del 1997 è l’ultimo episodio degno di nota che Page partorì con i suoi Helmet, trio noise-metal newyorchese che godette di una certa notorietà di nicchia a metà degli anni ’90 prima di autofagocitarsi in un gorgo senza via di uscita: troppo deboli infatti i due cavalli di ritorno “Size Matters” (2004) e “Monochrome” (2006) per rinverdire anche solo in parte i fasti degli esordi. Il sound allucinato e la violenza aberrante che fecero di “Strap it on” e “Meantime” due piccole pietre miliari del noise-rock si stemperarono per cedere campo alla ricerca sugli intrecci tra ritmi e tempi obliqui del complesso “Betty”, fino ad approdare a questo “Aftertaste”, che costituisce a tutt’oggi la prova più mainstream del terzetto. Parlare di mainstream è forse eccessivo, ma è innegabile come nelle tracce di questo lavoro Hamilton prenda finalmente maggiore confidenza sia col canto – che a tratti è vero canto e non solo canto-parlato o latrato sgangherato – sia con la melodia, arrivando addirittura a vergare canzoni radiofoniche: il ritornello di “Driving nowhere” o la scintillante andatura di “Birth defect”, così come la cadenza danzereccia “It’s easy to get bored” col suo tono svogliato, o il rallentamento elettrico di “Like I care”, sono fulgidi esempi di come gli Helmet fossero perfettamente in grado di scendere a patti con sé stessi in primis e di aprirsi a nuove soluzioni che li proiettassero fuori dall’hortus conclusus nel quale si erano relegati. Il veleno non manca, dalla ferocia maniacale di “Pure”, che apre il disco su un martellamento squadrato, ai terrificanti quattro brani che chiudono l’album e nei quali il buon Page si ritrasforma nel lupo mannaro che fu: l’assalto furioso di “Harmless” placa la sua furia nel rimbombo claustrofobico di “High visibility”, prima di cedere la scena al rigurgito sguaiato di “Insatiable”, e di completare la vivisezione nella devastante accelerazione della conclusiva “Crisis king”, mostruoso compendio dell’arte deviata di Hamilton. Il frastuono è brutale, le urla sputano un testo di desolata frustrazione lacerando una melodia che non ha speranza di sopravvivere, prima del collasso definitivo nelle distorsioni metalliche dei titoli di coda. Purtroppo “Aftertaste” rimase un episodio isolato, un punto di arrivo che segnò un non-ritorno anzichè una rinascita, una boccata d’aria prima della reimmersione definitiva nelle sabbie mobili dell’oblio. (Manuel Maverna)