RENAUD  "Boucan d'enfer"
   (2002 )

Nel corso di una carriera ultratrentennale, segnata da molti alti, pochi bassi (più che altro coincisi con problemi di carattere personale) e milioni di dischi venduti nei Paesi dell’area francofona, il signor Renaud Sechan, in arte semplicemente Renaud, non ha mai cessato di lanciare i suoi strali contro tutto e tutti, con un’espressività pesantemente venata di lucido sarcasmo e pungente, dissacrante ironia. Bersaglio delle sue sapide invettive qualsiasi parvenza di malcostume, demolito in liriche taglienti e provocatorie, ma anche sé stesso, carnefice disincantato capace di feroce autocritica ed autoironico vittimismo. “Boucan d’enfer” è l’album che segnò il rientro sulle scene di Renaud ad otto anni di distanza dal precedente lavoro di studio, permettendogli di vendere oltre due milioni di copie (settecentomila ne vendette il singolo “Manhattan-Kaboul”, cantato in coppia con Axelle Red, ballad dalla perfetta costruzione e dal refrain contagioso, perfetto apripista per riaprire le acque che si erano chiuse) e di riaffermarlo – se mai ce ne fosse stato bisogno – come cavallo di razza, ma è soprattutto il disco della rinascita dopo un lungo iato segnato dall’alcoolismo: letteralmente preso per mano dall’amico – autore, produttore e collaboratore di vecchia data – Jean Pierre Bucolo, qua in veste di strumentista e coautore di tutti brani, un Renaud ripulito riuscì ad estrarre dal cilindro un album graziosamente pacato, ma soprattutto confidenzialmente placato, morbido ed accogliente come una baita calda nella tormenta di neve. E’ un disco gentile, soffice nella sua autoindulgente, pungente autoanalisi, disco che regala perle di intensità toccante ad un ritmo blando e rilassato (fanno eccezione “Tout arrêter...” e “Mon nain de jardin”, spinte al passo dell’amato country-western), dispensando dolenti confessioni in tono garbato e – a tratti – quasi divertito, come il racconto di chi sia scampato con successo al pericolo. E’ il caso della melodia tremante di “Je vis caché”, accompagnata da un filo di fisarmonica, della ballata orchestrale di “Cœur perdu” o della lenta progressione della title-track, tutte tracce che fluiscono languide senza annoiare; l’album è largamente autobiografico, con il convitato di pietra (l’alcool) sempre presente sullo sfondo, addirittura protagonista in alcuni episodi (la sfrontata autodenuncia dell’iniziale “Docteur Renaud, Mister Renard” con un bell’inciso ed un mid-tempo accattivante, o la conclusiva “Mon bistrot préféré” che narra di un immaginario ritrovo di personaggi dello spettacolo in un altrettanto immaginario bar da qualche parte tra le nuvole) che scherzano col passato come il gatto col topo, sebbene non sia chiaro se Renaud sia l’uno o l’altro. Resta la speranza che sia tutto finito, tutto lasciato alle spalle (ancora “Tout arrêter...”), la speranza che sia il Renaud a prendere il sopravvento sul Renard, ma la certezza assoluta è forse ancora lontana dall’essere raggiunta. (Manuel Maverna)