PROZAC+  "3"
   (2000 )

Da un disco dei Prozac+ non c’è un granchè da aspettarsi, nè mai c’è stato. Superato il gradimento minimo consentito per quella “Pastiglie”, così furbescamente scorretta, dell’album di esordio, ed infranta la barriera della charts grazie all’imprevedibile tormentone che “Acida” diventò a suo tempo, per Gian Maria Accusani e socie si pose il problema di come proseguire un discorso iniziato in maniera spontanea e urgente ma ampliatosi in misura del tutto inattesa. Fatti i conti sia con le scarse doti tecniche sia con la correlata (limitata) capacità di vergare brani di reale spessore o di particolare innovatività, il trio friulano decise di accontentarsi di una replica pressochè fedele dei clichè che ne avevano decretato l’affermazione, partorendo un lavoro che, lungi dal proporre novità salienti, si segnala quantomeno per una coerenza stilistica tale da rendere la band riconoscibile alla prima nota. La direzione è sempre la medesima, all’insegna del canonico pop-punk corredato da ritmi veloci, ritornelli bubblegum (mirabile quello di “Vorrei”, cantata da Gian Maria e gemella della “GM” di “Acido Acida”), testi semplici che narrano storie di drop-out ed il consueto uso accentato dell’ultima sillaba, tutti espedienti canonici che generano comunque, senza alcuna sorpresa, un disco ancora una volta gradevole e facilmente fruibile. Non c’è nulla di complesso nè di arzigogolato, nessuno sforzo eccessivo nè brani capaci di brillare per originalità nè levatura, eppure l’intero album si ascolta con piacere tra anthem classici (i primi quattro pezzi hanno uno slancio terrificante, col ritornello di “Angelo” a svettare su tutti), timidi esperimenti (il ritmo sintetico – quasi trip-hop – di “Ordine disordine”) ed episodi meno ispirati ma comunque energici (“Superdotato”, “Mi piaccio solo”). Chiude il lavoro come bonus-track una pessima cover di “Boys don’t cry” dei Cure, ma tanto basta: da un disco dei Prozac+ non c’è un granchè da aspettarsi, nè mai c’è stato, e va bene così. (Manuel Maverna)