MERCURY REV  "See you on the other side"
   (1995 )

I Mercury Rev, quintetto di Buffalo, sono una band strana in tutto: nel tipo di musica proposta, nell’approccio sci-fi, nell’indole visionaria e bislacca, nella strumentazione allargata che impiegano, nel risultato finale dei loro dischi, percorsi in apparenza deliranti che conducono ad una straniata e stordente coerenza. A partire dalle storiche composizioni di “Yerself is steam” (ingannevole già dal calembour del titolo) col quale debuttarono nel 1992, la parabola dei Mercury Rev ha attraversato due decenni di neopsichedelia, ridefinendo i confini di una musica in perenne espansione: ogni sperimentazione è movimento, continua trasformazione, sottile mutamento consolidato da una strumentazione adatta ad esprimerne la fluidità. Il processo compositivo seguito da Jonathan Donahue e soci consiste nell’aggregare fonti di suono eterogenee in un’unità che divenga totalizzante, una sorta di sistematizzazione del caos che pervenga a creare uno stato di trance. Linee melodiche differenti – così come disarmonie – si sommano le une alle altre aggiungendo strati su strati di suoni compositi che solitamente mirano a deflagrare in saturi finali strumentali in crescendo: la somma di elementi disparati produce paradossalmente un’unità di suono, procedimento per molti aspetti analogo a quello tentato – con identico successo, ma partendo da basi differenti – dai Flaming Lips. I sette minuti del brano di apertura “Empire State” inscenano un carosello che lievita subdolamente, introducendo gli strumenti in sequenza: ad un pianoforte beat si aggiungono prima una voce mixata in lontananza, quindi schegge sonore sparse e una chitarra acustica, indi l’elettrica distorta e la batteria, poi il flauto, e siamo solo ai primi due minuti. A metà del brano avviene un’esplosione prossima al free-form, con sax e tromba ad innestarsi su un nuovo tema di elettricità distorta condotta fino al termine del pezzo in un generale bailamme trafitto dalla reprise della voce e dal flauto che intona una marcetta. La successiva “Young man’s stride” cambia completamente registro, tre minuti scarsi di post-rock dissonante e frammentario tra Sonic Youth e Steve Albini, con un drumming frenetico e zoppicante ed un accenno di refrain compiuto. I coretti da Manhattan Transfer accompagnano l’inciso della successiva “Sudden ray of hope” lungo un funky leggero da cocktail-lounge con tanto di assolo di sax, divagazione disco-dance ed improbabile intervento del flauto nel finale, mentre “Everlasting arm” manda in scena dei Supertramp in acido tra nacchere, strimpellii, fiati assortiti, cori fiabeschi e scampanellii atonali in un pastiche che lambisce l’avantgarde senza approdare a nulla, mentre un sax chiude il pezzo su un accenno di beguine. In cotanta nebulosa confusione, fortunatamente “Racing the tide” riprende le redini dell’album costruendo un altro crescendo, questa volta più lineare ed in prevalenza chitarristico, forte addirittura di una linea melodica ben visibile e di una inaspettata regolarità nello sviluppo, senza rinunciare tuttavia al consueto sovraccarico a base di fiati, deflagrazioni orchestrali, percussioni tribali, tromba jazz e triangolo. E’ il preludio alla disco-music anni ’70 – tanto fuori luogo da apparire quasi sinistra - di “Close encounters of the 3d grade”, con linea di basso funky e vocalizzi da black music, che sfociano nel ballabile sbilenco di “A kiss from an old flame”, agitato da spettrali echi di fondo, ed al finale stralunato di “Peaceful night”, tra canto natalizio e marcia bandistica da festa rionale. Album completamente off nella sua ostentata volontà di esserlo, non ascrivibile ad alcuna corrente se non al concetto di psichedelia in senso lato, intesa ancora una volta come possibilità di ampliare gli orizzonti della musica oltre le categorizzazioni di genere. (Manuel Maverna)