FIELDS OF THE NEPHILIM  "Elizium"
   (1990 )

I Fields of the Nephilim, creatura e veicolo espressivo di Carl McCoy, sono una band inglese tuttora ufficialmente in attività, sebbene la loro produzione discografica, la line-up e la frequenza con la quale si esibiscono presentino grosse discontinuità già da un decennio a questa parte. Circondati da un’aura di oscuro misticismo, ben simboleggiati e rappresentati dalla figura lugubre e dalla personalità sciamanica del vocalist Carl McCoy, la cui maestosa, inquietante e ieratica presenza scenica incarna perfettamente il mood del gruppo, i Fields of the Nephilim rimangono fenomeno di nicchia nell’ambito del gothic-rock più oltranzista. “Elizium” è il loro terzo album di studio (ne hanno realizzati 6 in ventiquattro anni), cinquanta minuti di atmosfere sospese, rarefatte, cupe nonostante le reiterate aperture melodiche che lo caratterizzano; è un disco di maestosa bellezza che dispensa con naturalezza sorprendente sei lunghi brani dalle armonie suadenti e dalle tinte fosche, un curioso ibrido tra la psichedelia dilatata dei Pink Floyd meno sperimentali e l’allucinata visionarietà ossianica dei Sisters of Mercy di Andrew Eldritch. Le composizioni si sviluppano con studiata lentezza, lievitando sornione avviluppate attorno a giri ripetuti all’infinito sui quali si inseriscono contrappunti tastieristici e parti ad effetto di chitarra solista; l’effetto complessivo è stralunato e straniante, inebriante e trasognato, un gorgo ubriacante di armonie sature che occupano poco alla volta tutto lo spazio disponibile, come accade negli undici imponenti e vorticosi minuti di “Sumerland”. Sono estenuanti litanie elettriche che talvolta si impennano bruscamente rilasciando la molta tensione accumulata (emblematica l’iniziale cavalcata di “For her light”, sfumata nella successiva “At the gates of silent memory”, che vaga spettrale per otto minuti su un arpeggio distillato prima di esplodere in un caotico sabba per rigurgiti e chitarre), rallentamenti catatonici (“And there will your heart be also”, che chiude il disco su una spirale claustrofobica), ballate ipnotiche avvolte su se stesse (“Wail of summer”) e ossessive variazioni ritmiche che sfiorano il rumorismo (“Submission”, con un mirabile lavoro chitarristico). Album di una intensità magnificamente tetra, gioiello autenticamente e sinceramente catacombale, purtroppo penalizzato in parte da una qualità audio non in grado di supportarne a dovere le sofisticate trame sonore e la caligginosa atmosfera infernale. (Manuel Maverna)