LES COWBOYS FRINGANTS  "Que du vent"
   (2011 )

A tre anni di distanza dallo splendido e fortunatissimo “L’expedition”, gli Arzilli Cowboys, popolare folk-band canadese ben nota nell’area francofona e pressochè sconosciuta nel resto del mondo, si ripresentano con un album fin troppo atteso che delude in parte le molte aspettative di stampa e fan. Un disco dei Cowboys Fringants non può mai essere meno che gradevole, e ciò per definizione: il ritmo sostenuto, le armonie gioiose e il mood scanzonato ne fanno un prodotto di facile consumo che si lascia ascoltare con piacevolezza, sia che induca alla riflessione sia che punti a creare una festosa baraonda. Trainati ancora una volta dall’estro creativo di Jean-Francois Pauzé, come sempre autore di tutti i brani, e dai contrappunti – fin troppo diradati - della polistrumentista Marie-Annick Lépine, qui anche in veste di co-autrice delle musiche in ben sei tracce, in questo discutibile “Que du vent” i Cowboys Fringants stentano ad impressionare, dando piuttosto l’impressione di avere svolto il compitino limitandosi al minimo necessario per strappare la sufficienza. Gli undici brani, condensati in poco più di quaranta minuti, tradiscono una palese mancanza di ispirazione, come fossero stati assemblati sui due piedi per rilasciare quanto prima il nuovo lavoro, tralasciando la cristallina spontaneità che aveva felicemente contraddistinto gli ultimi tre capitoli della loro nutrita discografia. Questa volta – ahimè - il golden boy Pauzé pasticcia come un ragazzino, non già per ingenuità, quanto piuttosto nel tentativo scoperto di mascherare la carenza di idee con il ricorso a tempi veloci e soluzioni poco attraenti ed ancor meno contagiose. Non a caso l’apertura è affidata addirittura alla disco-music di “Télé”, il cui ritornello non risolleva l’andatura generale di un brano sì godibile, ma avulso dal contesto; ci pensa la successiva “Paris-Montréal” a rievocare “Joyeux calvaire” in una cavalcata forsennata ricamata sulle ali del violino della Lepine (che ricorda i primi Louise Attaque), ma dal refrain deboluccio, la medesima sorte che tocca all’accelerazione esasperata dell’esercizio accademico di “Marilou s’en fout” ed alla bella ballata mid-tempo de “L’horloge”. Da qui alla fine i quattro ragazzi del Quebec annaspano tra chiassosi baccanali senza capo nè coda (“Classe moyenne”, “Hasbeen”, “Party!”, tutte e tre meno che indispensabili) e qualche colpo da maestro (il country laid-back di “On tient l’coup”, l’impennata ritmica della title-track o l’irresistibile shuffle parigino di “Comme Joe Dassin”) che nobilita in extremis un album interlocutorio di poche pretese, dominato da un palpabile disimpegno e dalla evidente rinuncia ad assumersi rischi inopportuni. (Manuel Maverna)