CCCP FEDELI ALLA LINEA  "Epica etica etnica pathos"
   (1990 )

Sempre punk nell’anima e nell’intento sovversivo e provocatorio, ma ad anni luce di distanza dalla fiera, militante rozzezza degli esordi e dai più elaborati proclami della maturità, i CCCP di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni realizzarono nel 1990 “Epica etica etnica pathos”, album ricchissimo ed eterogeneo, musicalmente indefinibile, che incarna con imperiosa compiutezza la fase decadente del collettivo emiliano. Si tratta di decadentismo in senso lato, essendo ogni traccia una deformazione – più che una corruzione - del suo corrispondente archetipo rintracciabile nel recente passato; con l’apporto determinante di Gianni Maroccolo, fondamentale e decisivo sia come autore che in qualità di arrangiatore e di “disturbatore” (al pari di Giorgio Canali, che tuttavia non contribuisce alla stesura dei brani), la premiata, geniale e deviata coppia Ferretti-Zamboni raccoglie in un’opera maestosa ed avanguardistica tutti i detriti ed i residui sopravvissuti al sarcasmo delirante degli esordi ed alla sbornia filosovietica che ne costituì veicolo necessario ed ineludibile. Molti degli elementi già assemblati negli album precedenti sono presenti anche qui, ma vengono rimpastati in fogge imprevedibili con esito spiazzante. Se confrontata al punk diretto e sintetico di tre minuti che ne caratterizzò gli albori, la complessità e l’elaborazione (non solo compositiva e strumentale, bensì anche intellettuale) di gran parte degli episodi suonano tanto inattese quanto soprendenti, quasi inimmaginabili soolo dieci anni prima: è il caso dei nove minuti della folle suite visionaria di “Aghia Sophia”, che apre il disco mettendo già in chiaro gli intenti artistici che il lavoro si prefigge, o degli undici minuti del delirio in tre movimenti di “Maciste contro tutti”, ma con poche eccezioni (la ballata mid-tempo a tema religioso di “Paxo de Jerusalem” e il cupo rallentamento cripto-filosovietico di “Depressione caspica”) nulla si salva dall’anormalità. Nè la sceneggiata in due parti di “Narko’$/Baby blue”, che miscela una sozza dance cantata da Fatur (sulla scia di “Vota fatur” da “Canzoni preghiere danze”) a rasoiate di basso distorto, nè il tangaccio baritonale di “Amandoti”, che dota l’amore di un malcelato sarcasmo, e così via in una carrellata di mostri, loschi figuri, fenomeni da baraccone. Dai baccanali orgiastici e scomposti di “L’andazzo generale” e “Mozzill’o re” alla litania di “Campestre”, dal lamento mediorientale di “Al Ayam” agli intermezzi folkloristici per organetto diatonico e vociare ambientale di fondo (“Sofia”, “In occasione della festa”, la reprise corale di “Campestre”), è tutto un ubriacante susseguirsi di idee, provocazioni, politica, calembour, scherzi, allusioni, in un gigantesco caleidoscopio sonoro e dell’intelletto che confonde le orecchie ed il pensiero con disturbante fluidità, una fucina del diavolo capace di regalare addirittura la rilassata, trasognata, toccante melodia di “Annarella”, dichiarazione d’amore sublimato che veleggia ad altezze celestiali nella sua estasiata purezza. Opera complessa che si presta a molteplici interpretazioni, disco avanguardistico partorito con sorprendente facilità da alcune delle più brillanti menti creative che il rock italico abbia mai potuto vantare. (Manuel Maverna)