AFTERHOURS  "Quello che non c'è"
   (2002 )

Dare un seguito a "Hai paura del buio?" già non deve essere stata impresa facile per Manuel Agnelli e la sua corte dei miracoli: l'improba spedizione è infatti parzialmente naufragata nell'indecisione dell'incolore "Non è per sempre". Ma tirarsi fuori dall'abisso il cui spettro pareva oramai essersi materializzato dopo la fuoriuscita di Xabier Iriondo poteva essere una scalata ancora più ardua: come risalire la china, come togliersi dalle spine e rinascere a nuova luce? Semplicemente spegnendo la luce, quella che aveva illuminato di gloria inattesa quegli Afterhours, semplicemente rinunciando ad essere così tanto Afterhours, ma cercando al contempo di conservare intatta l'anima che aveva sospinto un'anonima band indie milanese verso la notorietà solo qualche anno prima. Agnelli è intelligente, è cambiato come persona e come musicista: non è più il tempo delle goliardate, è ora di crescere e diventare grandi, anche se ciò significa abdicare, rinunciando al trono così faticosamente conquistato. La luce allora traballa, si affievolisce fino quasi a spegnersi, lasciando solo una fosca penombra nella quale si agitano spettri e demoni, ombre lunghe come il traliccio che campeggia sfuocato in copertina in una notte tempestosa. E' un viaggio nel buio e verso il buio, appesantito da un'espressività sofferta e dolente, accompagnato da musiche che trasmettono un senso di impietosa sconfitta, di ideali smarriti in qualche crepuscolo austero. L'opening è affidato alla title-track, che impiega un minuto prima di iniziare a svolgersi e soprattutto prima di librarsi in volo - ma è un volo a mezz'aria - con la meraviglia del suo testo intricato, per collassare in un coda senza senso, avulsa dalla prima parte e sospesa tra i pensieri sghembi di Agnelli. La segue "Bye bye Bombay", divenuto un classico del repertorio Afterhours, percussioni dilaniate da un incedere a spirale che fa tremare i polsi, per terminare a sua volta in un altro vicolo cieco strumentale. Tutto continua su un registro poco Afterhours e terribilmente oscuro, esistenzialismo claustrofobico in veste funebre ("Bungee jumping", lenta pista di sabbia nel deserto, come anche la chiusura di "Il mio ruolo", sospesa sul ciglio di una vita trasformata in burrone), disillusione palpabile, malessere nero come la pece raccontato con poche parole sbavate ("Varanasi baby"). Anche laddove rimane qualche traccia del passato ("Non sono immaginario", "La gente sta male"), è sempre vivida la sensazione che nulla sarà più come prima: indietro non si può tornare, neanche volendo. Disco eccellente e subdolo, che richiede ripetuti ascolti prima di insinuarsi sottopelle come un dolce veleno. (Manuel Maverna)