MICKEY3D "La grande évasion"
(2009 )
Mickael Furnon è stato per una decina d’anni la mente pensante dietro il progetto Mickey3d, ensemble dalla line-up fluttuante ed instabile, ma sempre in larga parte veicolo espressivo del suo leader, autore della quasi totalità dei brani e polistrumentista versatile. Sciolta la band nel 2007 dopo quattro album (il terzo, “Tu vas pas mourir de rire”, fu pluripremiato e vendutissimo fra il 2003 ed il 2004), Furnon ha proseguito da solista mantenendosi nel solco tracciato con i lavori precedenti. Difficile, se non impossibile, etichettare la sua proposta inserendola in un filone ben preciso: si tratta di uno strano ibrido fatto di chansonne tradizionale (ma solo in certe progressioni armoniche e nell’intimismo di alcune atmosfere), elettronica (arrangiamenti e basi ritmiche), piglio rock (le parti di basso in particolare) e pessimismo cosmico dispensato a piene mani in testi dal taglio spesso grottesco, pungenti e disillusi. Cantore bizzarro di un’umanità distorta e delle piccole grandi mostruosità che la caratterizzano, Mickael rilascia in imperfetta solitudine un disco che conserva sì le peculiarità di un sound riconoscibile tra molti (singolare la tendenza a “nascondere” le canzoni, che spesso iniziano con qualche campionamento o con una drum-machine per poi deviare verso uno sviluppo della melodia imprevisto e non sempre lineare), ma che stenta a decollare dal principio alla fine. Il mood è il solito, ma purtroppo a latitare sono le canzoni, poche delle quali riescono a suscitare un sincero interesse: forse il racconto autobiografico di “Playmobil” che apre l’album con false promesse, o il perfetto singolo (questo sì irresistibile) “Méfie-toi l’escargot”, forse l’intrigante mid-tempo cadenzato di “Personne n’est parfait” con un giro di basso pressochè identico a quello di “Lucretia” dei Sisters of Mercy, o la contagiosa sceneggiata comica di “Montlucon” spinta ad un ritmo da dancing-hall. Per trovare gli episodi più ispirati bisogna tuttavia attendere le ultime tracce: la ballata veloce de “La fille du cannibale” è apprezzabile, con un basso da fare invidia a Simon Gallup (l’eco dei Cure aleggia un po’ ovunque) ed un bel contrappunto di tromba nel finale, e sono sempre atmosfere cupamente coinvolgenti quelle che si dispiegano sulle ali della chitarra flangerata di “L’arbre du petit chemin” e nella ballata orchestrale di “Les vivants” che chiude l’album lasciando una sensazione di leggero sconforto mista ad un accenno di delusione per una buona occasione perduta. Disco deboluccio e poco ispirato, solo a tratti illuminato da guizzi di autentica classe, non certo l’occasione migliore per accostarsi a questo autore dall’animo oscuro e tenebroso. (Manuel Maverna)