HELMET  "Size matters"
   (2004 )

Orfani dell’originaria – ed inarrivabile – sezione ritmica, costituita da Henry Bogdan al basso e soprattutto dal monumentale John Stanier alle pelli, i newyorchesi Helmet del colto rumorista Page Hamilton si ripresentano a sette anni di distanza dal brillantissimo “Aftertaste” con un lavoro interlocutorio e ben poco indispensabile. Deposta la brutalità omicida degli esordi, così come la violenza compressa e metronomica dello sgraziato “Betty” e l’ispirato crossover che rese “Aftertaste” un piccolo gioiello tanto abbordabile quanto efferato, ciò che resta è una riproposizione piuttosto sterile di stilemi tipici della scrittura meno ispirata di Hamilton, qui costretto dalla mancanza di Stanier a ridimensionare le proprie pretese artistoidi riconducendo l’ossatura dei brani ad un più inquadrato e riallineato grunge-metal di maniera. Permangono tracce - sebbene sembrino appartenere ad un modo di fare musica piuttosto superato - di alcuni temi canonici sfruttati fino all’abuso da Page e soci nei precedenti capitoli risalenti agli anni ’90: i controtempi (non male l’opener “Smart” su una cadenza alla Stone Temple Pilots, nè disprezzabile “Throwing punches” col consueto chorus più fastidioso che memorabile), i riff “grossi” di tellurica potenza, l’impiego sistematico delle dissonanze (apprezzabile “See you dead”, che indulge un po’ troppo nella citazione di “No one knows” dei Queens of the Stone Age prima di allargarsi nell’abituale ritornello aperto e falsamente melodioso) e la tendenza di fondo alla costruzione di un rumorismo che era un tempo lancinante, mentre suona ora come l’ennesima declinazione del nu-metal in salsa intellettuale. Questi undici nuovi brani offrono toni smorzati, quasi buffamente pop negli episodi meno riusciti (“Unwound” potrebbe essere una canzonetta da FM – peraltro bruttina – buona per i Nickleback, come la scipita “Speak and spell”), e nell’insieme edificano un lavoro prevedibile costruito sulla falsariga di “Aftertaste”, del quale non possiedono nè l’appeal nè l’ispirata furbizia, quella che manca ad esempio a “Everybody loves you” per essere un buon pezzo (esiste già “High visibility” su “Aftertaste”, ed è più che sufficiente) o al blues fasullo di “Enemies” per diventare qualcosa di più di una traccia pedante ed inconcludente. Page Hamilton non è mai stato un buon autore di canzoni, ma gli Helmet erano una straordinaria, efferata macchina da guerra, un trio dotato di una tecnica strumentale sopraffina al servizio di un sottogenere – oggi anacronistico – che prescindeva dai virtuosismi tipici del metal privilegiando invece gli incastri ritmici ed il lavoro – a suo modo raffinato – sulle dissonanze. Purtroppo gli anni passano e le mode cambiano, e “Size matters” resta al palo, riproponendo come nuovo punto di partenza la stessa ricetta che costituiva il punto di arrivo (e la fine) di una intera carriera; disco scialbo, sostanzialmente inutile sia per i fan storici, sia per i neofiti che intendessero accostarsi con interesse a questa band tutt’altro che imprescindibile, ma oscuramente anomala e perversamente affascinante. (Manuel Maverna)