DOVER "Late at night"
(1999 )
I Dover sono un quartetto madrileno ideato e capeggiato dalle sorelle Cristina (voce e seconda chitarra) e Amparo (chitarra) Llanos, autrici di tutti i brani e motore di questa fortunata band, in attività dalla metà degli anni ’90 con sorti solo di recente divenute alterne a causa di un inusitato cambiamento di rotta nelle direttrici musicali che ne avevano decretato il successo. Oggi, abbandonati ed accusati di alto tradimento dai moltissimi fan storici acquisiti in patria, complice una inopinata, scellerata svolta verso l’elettronica leggera, i Dover di “Late at night” rilasciarono invece nel 1999 un lavoro accattivante in linea col precedente “Devil came to me”, album capace di vendere mezzo milione di copie e di affermarli come una solida realtà del rock ispanico, senza che – in verità – vi sia alcunchè di ispanico tra le tredici tracce di questo disco ruvido e di poche pretese. Rinunciando da sempre alla favella natìa per meglio adattarsi al taglio anglosassone delle canzoni partorite, le sorelle Llanos prediligono l’uso dell’inglese, talvolta impiegato peraltro con una certa imperizia nella pronuncia e ricorrendo ad una scrittura semplice ed esile dal punto di vista lessicale; ciò nonostante, il prodotto finale è a dir poco contagioso nella sua greve irruenza, una sequenza ininterrotta di schegge concise ed abrasive in cui le chitarre fustigano melodie indovinate e chorus anthemici, in un efficacissimo gioco di rimandi al punk-pop-grunge degli ultimi cinque lustri (dagli Husker Du a scendere, con una fortissima eco di Offsping e Therapy?). La voce acuta di Cristina, a tratti lancinante al pari della coltre di feedback generata da Amparo su uno stuolo di tonalità minori, è capace al contempo di latrare con la ferocia belluina del grindcore (“Me and my mulòn”) e di modulare nevrosi assortite con il piglio assassino di una Courtney Love (“Four graves”, “Late at night”), in una discesa a rotta di collo agli inferi del primitivismo compositivo. Bordate acide e scariche elettriche continue (ne è ottimo esempio il terrificante opener “Dj”, sventrato da ogni possibile digressione chitarristica, qui anche di stampo metal) scuotono dalle fondamenta un album senza flessioni, ricco di episodi tanto maniacali quanto orecchiabili (le ariose ballate di “Cherry Lee” e “Far”, con contrappunti che lambiscono le strutture della new-wave), un godibilissimo caleidoscopio derivativo di citazioni stilistiche che si lascia comunque ammirare ed apprezzare nella sua scintillante, ingenua, furente ed istintiva urgenza. (Manuel Maverna)